Le parole della cura

Segnaliamo l'opera "Le parole della cura" di Giada Lonati, Direttrice sociosanitaria di Vidas, con il quale la stessa autrice ci porta, attraverso le sue esperienze, a comprendere cosa vuol dire prendersi cura di qualcuno.

Occorrono modelli organizzativi che valorizzino la comunicazione e una formazione che educhi i medici a cercare la giusta vicinanza più che la giusta distanza.
Le competenze umanistiche devono consolidare quelle scientifiche perché mai più si confonda la cura della malattia con quella del malato «Quindi quando dite progressione intendete che il tumore sta peggiorando? Scusi ma a voi medici all’università insegnano a fare il tifo per i malati o per le malattie?». Rinaldo mi spiazza così, mentre guardiamo insieme l’esito della sua Tac. Amo il linguaggio della medicina, che sa fare sintesi di una straordinaria complessità. Le parole costruiscono mondi e rappresentano un aspetto centrale – non l’unico – della comunicazione tra medico e paziente. Per questo richiedono molta cura. Perché un conto è parlare tra sanitari – e qui il linguaggio tecnico è funzionale alla descrizione della malattia – un altro accogliere il malato e il suo bisogno di parole chiare e comprensibili, di un vocabolario noto per trasformare i dati biologici in significati biografici.
Comunicare è in primis «mettere in comune» e al medico è chiesto di spogliarsi del linguaggio aulico e difensivo della scienza per costruire un glossario comune con la persona che ha di fronte.
Trovare le parole giuste significa condividere la propria umanità, riconoscersi in un punto diverso del cammino rispetto all’altro, ma accomunati – il termine ritorna – da una stessa sorte, da una fisicità che ci rende simili, da una paura atavica della malattia e della morte. Non è chiesto al medico di acquisire il punto di vista dell’altro ma di considerare come l’asimmetria innegabile della relazione di cura si possa stemperare nell’universalità dell’esperienza del dolore e della fragilità. È un esercizio che richiede di usare con cura le parole ma anche di stare in ascolto, in un silenzio talora faticoso da reggere. E di riconoscere le emozioni che – ancor più nelle comunicazioni difficili – inevitabilmente si muovono in noi. Significa anche superare la paura di affrontare il dolore proprio e altrui. Riconoscersi esseri umani sufficientemente competenti da affrontare l’inevitabile sofferenza che la comunicazione di una cattiva notizia potrà causare nell’altro senza per questo lasciarlo solo. Dirci che sapremo reggere l’ondata emotiva che inevitabilmente toccherà anche noi. Serve un pensiero diverso sulla medicina. Occorrono modelli organizzativi che valorizzino la
comunicazione e una formazione che educhi i medici a cercare la giusta vicinanza più che la giusta distanza. Dobbiamo rivalutare il lavoro di équipe per il contributo che ogni figura professionale può dare in termini di capacità comunicative ma anche di sostegno reciproco. È indispensabile che le competenze umanistiche vadano a consolidare quelle scientifiche perché mai più si confonda la cura della malattia con quella del malato.

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