Biotestamento: accademici Lincei, puntare su libero arbitrio

La persona, l'essere umano possessore del libero arbitrio, malata o sana che sia, paziente su un letto d'ospedale, in stato vegetativo, di minima coscienza o in coma. E' intorno a lei, e solo a lei, che deve ruotare il dibattito sul testamento biologico, e solo a lei deve essere dedicato. E' l'invito degli accademici dei Lincei che hanno organizzato una due giorni dedicata al biotestamento invitando a deporre le armi ''ideologiche'' e prendersi una pausa dalle feroci discussioni che hanno contraddistinto l'iter parlamentare del disegno di legge sulle Dat, ancora fermo, in terza lettura, in commissione Sanità del Senato, dalla prima approvazione il 26 marzo del 2009.

Come spiegato all'ASCA da Pietro Rescigno, giurista, professore dell'Università degli Studi di Roma ''La Sapienza'' e coordinatore del convegno ''Testamento biologico e libertà di coscienza'', il dialogo in programma ai Lincei è stato organizzato volutamente in un momento di attenuazione della polemica politico-parlamentare ed è contraddistinto dal distacco dell'osservazione scientifica e della proposta metodologica.

''In questo momento, si può riflettere in modo meno ideologicamente orientato, abbiamo scelto questo periodo proprio perchè più adatto a una meditazione tranquilla" - ha aggiunto - "un discorso di tono scientifico''.

L'Accademia ''in passato ha adottato dei voti su certe materie, sui farmaci, sulle cellule staminali, ma non ha poteri, nè pretese, nè funzioni consultive'' e sul testamento biologico ''il mio orientamento è in senso liberale, dunque di consentire al paziente di esprimere, in termini di dignità, quello che è il suo autonomo sentire''.

Il Parlamento invece ''aveva congegnato un istituto che non si risolveva in una protezione dell'autonomia del soggetto, ma si affidava soprattutto al medico, la medicina, a una superbia tecnologica che invece dovrebbe tornare all'uomo''.

Una riflessione che ha contraddistinto anche l'intervento di Paolo Zatti, ordinario di Diritto privato all'Università di Padova: ''Chi decide oggi non è la persona, ma la medicina e le sue ambizioni''.

E allora, dice Zatti, ''per avvicinarsi a una pratica e a un diritto della dignità del morire ci deve essere come condizione il rispetto della morte, come momento, come conclusione della vita. La morte non è ancora sconfitta e il compito che si assegna all'umanità, alla medicina, è di contrastarla con ogni mezzo e senza demordere, conquistando anche piccoli lembi di vita, riducendo ostinatamente di anni, mesi, giorni o ore la zona dell'impotenza della medicina''.

Una lotta che ha in sè ''una crescente ambiguità'' per cui la persona ''spesso diventa il terreno di una contesa senza quartiere tra tecnologia e natura''. E il divieto di lasciarsi e lasciare morire ''è la promozione di un cultura materialistica'' che porta a tre errori commessi da chi contrasta questo diritto a lasciarsi morire: ''Quello di oscurare la differenza tra lasciar accadere e provocare; il non avvedersi che la morte è ormai sempre più non un fatto della natura, ma una decisione medica e il non vedere che senza un diritto di lasciar morire si monta un'infernale trappola in cui vengono reclusi insieme medico e paziente''.

Ma anche il medico si ritrova impotente di fronte alla distinzione, mai risolta, tra mente e cevello. Una distinzione su cui prova a far luce Piergiorgio Strata, del Dipartimento di Neuroscienze Sezione di Fisiologia dell'Università di Torino, affrontando il problema mente-cervello, squisitamente condiviso da scienza e filosofia. Dal modello di dualismo di Cartesio (secondo cui il cervello fa parte del mondo fisico e la mente appartiene alla metafisica) al ''monismo'' secondo cui la mente dipende solo da eventi cerebrali.

''L'antitesi monismo-dualismo" - spiega Strata - "non sembra oggi utile ad ogni riflessione, mentre nessun grado di autonomia della mente rispetto alla materia appare plausibile''.

Allora, nel caso del biotestamento, il nodo centrale della discussione resta quello della coscienza, affrontato da Giovanni Berlucchi (professore di Fisiologia al Dipartimento di Scienze Neurologiche e della Visione della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Università di Verona) e Andrea Soddu, del Coma Science Group dell'Universitè de Lie'ge.

Berlucchi riporta il dibattito sulla presenza di coscienza che può essere oggi accertata ''con l'esame di attività elettriche o metaboliche o circolatorie cerebrali'' che però ''hanno valore solo se correlate con qualche prova indipendente di un contatto consapevole del paziente con l'ambiente''. In questo senso bisognerà aspettare lo sviluppo di queste tecniche ''per distinguere pazienti coscienti e incoscienti''.

Lo stesso problema lo affronta Soddu, che propone l'uso di tecniche di neuroimaging ''da affiancare alla valutazione comportamentale per poter cercare di caratterizzare lo stato dei diversi disordini di coscienza e offrire alla valutazione ottenuta un valore prognostico''.

Uno spunto per rendere la discussione più fluida e meno ''definitiva'' arriva, come ricordato dall'antropologo Francesco Remotti (Università di Torino), ''dai Warì dell'Amazzonia con la loro pratica dell'infanticidio che dimostrano come le scelte di natura bioetica non assumono un carattere perentorio, ma sono costantemente oggetto di dibattito''. In questo senso ''una concezione 'dividuale' della persona è una premessa preziosa per mantenere la libertà delle scelte e conservare un grado di dubbio e di riflessione''.

Oppure un'altra riflessione può essere presa in prestito da Immanuel Kant, come fatto dal filosofo Enrico Berti (Università di Padova): ''Kant dichiara di prescindere dal considerare il suicidio come una trasgressione del dovere verso Dio, cioè come abbandono del posto che Dio ha affidato all'uomo in questo mondo domandosi se l'uomo sia comunque obbligato alla conservazione della propria vita unicamente per il fatto di essere una persona''. In questo senso Kant sostiene che ''l'uomo non può disporre liberamente di sè come di puro strumento per un fine arbitrario perchè, in quanto soggetto morale e libero, è un fine in se'''.

Tuttavia ''lo stesso Kant si domanda se sia lecito sacrificare la propria vita per la difesa della patria, o per salvare altre vite. A queste domande non dà risposte, ma esse stesse mostrano comunque che la vita non è il valore supremo e che il problema è di vedere a quali valori può venire sacrificata''.

Fonte: ASCA

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