Presentiamo qui il report del corso di aggiornamento, promosso dall'associazione GRECALE, tenutosi a Careggi il 17 ottobre 2008.
DIBATTITO
La Prof.ssa Valanzano (Presidente del Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia), in merito alla comunicazione apre la tavola rotonda affermando la necessità di modulare sé stessi ed il proprio modo di porsi e di comunicare con i pazienti, a seconda delle loro caratteristiche culturali, etniche, religiose, etiche, ecc… Bisogna però farlo senza pregiudizi e senza etichettare il paziente, ragionando per luoghi comuni.
Per far questo è necessario quindi rendersi disponibili alla conoscenza della persona che si ha di fronte.
L’ascolto, come sottolinea la Dott.ssa Barneschi (anestesista-rianimatore di Careggi), si rivela strumento fondamentale quando le nozioni e l’esperienza che abbiamo accumulato non risultano risolutive ai fini delle decisioni terapeutiche-assistenziali. Anche quando non sappiamo cosa fare, infatti, possiamo capire qual è la scelta giusta ascoltando il paziente. Ciò diviene ancora più importante nel “fine-vita”, dove appare molto difficile, emotivamente e psicologicamente, l’ascolto dell’altro, perché richiede un impegno personale profondo.
È ovvio però, come rileva il Prof. Favero (antropologo, Università di Firenze), che tutti questi buoni propositi si inseriscono in un contesto quotidiano di lavoro in cui i tempi ristretti, imposti dalle logiche dell’aziendalizzazione, non permettono, o almeno non facilitano, l’ascolto, la comunicazione e la creazione di un rapporto umano.
La Prof.ssa Orsi (sociologa, vicepresidente CRB) ed il Dottor Lopes Pegna (Direttore SOD. Pneumologia, Careggi) toccano uno degli aspetti più delicati del problema, ossia quello della comunicazione delle cattive notizie. A tale proposito ricordano come sia importante dire la verità al paziente sulla sua condizione anche quando i suoi congiunti ci chiedono di non farlo. Conoscere la propria diagnosi e la propria prognosi, seppur infausta, è un diritto del paziente che solo grazie alla consapevolezza delle proprie prospettive può operare scelte importanti nella vita privata per avvicinarsi alla morte in un modo sereno e pacificato. Naturalmente la verità deve essere fornita rispettando il come e quando il paziente richiede informazioni sulla propria condizione clinica, accompagnandolo nelle diverse fasi di elaborazione delle notizie relative a diagnosi e prognosi.
La Dott.ssa Paola Innocenti (Direttore UOC. NeuroRianimazione, Careggi) precisa, giustamente, che essere onesti col paziente non significa porlo di fronte alla verità nuda e cruda. Bisogna innanzitutto capire cosa il paziente vuole sapere, e quanto è pronto a sapere, dopodiché bisognerebbe limitarsi a rispettare questa volontà, esplicita o interpretata. Distinguere fra verità e clima di veridicità non è semplice e ciò rende chiaro come la comunicazione e l’approccio col morente, ed i suoi familiari, non siano qualcosa che l’operatore sanitario si può inventare, né qualcosa che dipende esclusivamente dalle capacità empatiche personali: la comunicazione si impara col tempo, richiede il rispetto di regole precise e l’utilizzo di strumenti che si perfezionano con l’esperienza e che possono, anzi dovrebbero, essere insegnati a tutti gli operatori.
TAVOLA ROTONDA
Palma Bernardi (Infermiera Coordinatrice – D.E.A AOU Careggi) apre la tavola rotonda sulla comunicazione con il malato migrante riportando la propria esperienza. La relazione più difficile è quella con pazienti provenienti da paesi extra-europei che non parlano né inglese né francese; si rende quindi necessaria la costruzione di un percorso che consenta di assistere in maniera adeguata persone di “cultura” e lingua diversa.
In questo contesto appare centrale la figura del mediatore culturale che non può essere un semplice interprete linguistico né un conoscitore di usi e costumi di un popolo; è necessaria, infatti, non solo una conoscenza del gergo tecnico e della terminologia medico-sanitaria, ma anche una preparazione etica e comunicativa specifica per operare in questo settore.
La Dott.ssa Maria Omodeo (Responsabile Area “Interculturalità” del COSPE) invita a non cadere in semplificazioni riduzionistiche: dare troppa importanza al fattore “cultura”, rischia di farci dimenticare che quella che abbiamo davanti, e a cui dobbiamo prestare assistenza, è innanzitutto una persona, un individuo a sé, con caratteristiche proprie, con una storia che lo identifica e non il mero rappresentante di una cultura, o il contenitore di usi e costumi tipici di un paese.
Un altro errore che medici ed infermieri spesso commettono, ma che dovrebbero cercare di evitare, è quello di delegare al mediatore culturale la responsabilità della comunicazione della cattiva notizia, così come non si deve delegare allo psichiatra la gestione del dolore dei familiari, etichettandoli come “depressi”. La comunicazione per essere efficace richiede l’impegno e la collaborazione di tutte le figure professionali che ruotano intorno al paziente: medico, infermiere, mediatore culturale, assistente sociale, volontario.
Tornando poi al problema della comunicazione delle cattive notizie, l’importanza di informare il paziente sulla propria prognosi si fa ancora più forte nel caso di un migrante; molte persone infatti desiderano tornare a morire nel proprio paese, ma se non diciamo loro che gli resta poco tempo da vivere, neghiamo loro questa possibilità.
La Dott.ssa Aida Larti (Nefrologa di Careggi) parla sia in qualità di migrante, poiché proviene dall’Albania, sia in qualità di medico che entra a contatto con i malati di diverse nazionalità e, infine, in qualità di mediatrice culturale, quando si richiede la presenza di una persona in grado di comunicare con pazienti albanesi.
Proprio grazie a questa triplice veste ha potuto rilevare come ci siano strumenti di comunicazione che ci consentano di avvicinarci ai pazienti di qualsiasi lingua e paese: il sorriso, lo sguardo, la vicinanza del corpo ed il contatto fisico costituiscono gesti di umanità universali che possono essere compresi da tutti e che facilitano l’instaurazione di un rapporto di fiducia.
Relativamente alla fase di traduzione e mediazione culturale è bene far molta attenzione a ciò che si dice, perché, dall’altra parte, possono esserci modi di intendere la vita, la malattia, la cura e la morte, completamente diversi dal nostro.
La Dott.ssa Elisabetta Confaloni (filosofa, responsabile dell’Albero della Salute – Regione Toscana) lavorando in una struttura dedicata alla formazione per la mediazione culturale, ha potuto rilevare quanto sia difficile il raggiungimento di un equilibrio fra due istanze fondamentali: il dovere istituzionale di assistenza dettato da un sistema sanitario universalistico, che ci impone di trattare tutti ugualmente, e l’etica della cura, che richiede di porre al centro la persona nella sua individualità.
Nella pratica sarebbe auspicabile che venissero effettuate delle indagini nei diversi contesti- ambulatori ed ospedali - per verificare la capacità delle singole strutture di relazionarsi con i pazienti migranti, comunicare con loro ed offrire loro l’assistenza adeguata.
La Prof.ssa Rosa Valanzano, sempre in tema di proposte concrete, fa presente l’esigenza di équipe chirurgiche al femminile nel caso di donne musulmane che devono essere operate. Attualmente, infatti, quando ciò non può essere garantito, queste donne rifiutano di operarsi poiché non vogliono essere avvicinate da operatori di genere maschile.
La Prof.ssa Maria Cristina Manca (antropologa, Università di Firenze) conclude riportando l’attenzione su due aspetti che caratterizzano la comunicazione interculturale in Sanità e che, allo stesso tempo, accomunano tutti i popoli e tutte le culture: la paura della morte e la paura della diversità. Lo scopo di ognuno di noi, e soprattutto degli operatori sanitari, deve essere quello di affrontare queste paure per far sì che si tramutino da ostacolo a strumento utile per la realizzazione di un’assistenza tanto umana quanto efficace dal punto di vista terapeutico.
A cura di Elisa Valdambrini - filosofa bioeticista.