L'Associazione IL MOSAICO ha raccolto le riflessioni sul tempo e la morte del prof. Emilio Baccarini, docente di Antropologia filosofica all’Università Tor Vergata di Roma.
Di seguito riportiamo l'intervento del professore.
Il punto di partenza sta nell’affermare che la morte ed il morire sono due dati assolutamente diversi; il morire non ha lo stesso significato della morte e questo perché, mentre noi come esseri temporali e viventi riusciamo ad avere la percezione del morire, non riusciamo ad avere una vera percezione della morte perchè, nonostante possa sembrare paradossale, non ne possiamo mai fare esperienza. Questo perché non possiamo sperimentare né percepire qualcosa che nella sua presenza ci risulta ed è sempre totalmente assente.
L’uomo è un vivente che dura in vita
Io sono convinto che noi, nella percezione che abbiamo del nostro esistere, non ci percepiamo come viventi e credo che questo sia il dato forte che dobbiamo imparare a pensare.
Cosa significa percepirsi come viventi? Cercando di andare al di là della banalità delle espressioni, credo che possiamo dare una prima indicazione dicendo che vivere significa durare nella vita. Riflettendo sulla morte neanche questo mi pare più così scontato perché il durare implica qualche altra cosa: la nostra esperienza del durare non è solitaria, avviene soltanto quando qualcuno accanto a noi non dura più; è una percezione che nasce dall’esperienza della morte di altri.
Il durare, il permanere in vita, è un’esperienza del fluire della vita e la morte - quella di altri - diventa l’indicatore dello scorrere del mio tempo. In questo senso il durare può anche vestire i panni del dramma o della tragedia, dello scacco del tempo. Nell’esperienza del durare accanto ad altri che non durano, sperimentiamo, come viventi, che il tempo non ci appartiene ed altresì che nel tempo si gioca totalmente il nostro senso d’essere.
“Durare nella vita significa continuare a ricevere il tempo su cui non posso tuttavia avanzare alcuna pretesa, ma che posso accogliere ed andargli incontro. Vivere vuol dire dunque essere mantenuti in vita senza mai intravedere il “fino a quando” e proprio in questa esperienza della quotidianità del tempo donato, della gratuità del tempo si radica la preoccupazione per la vita come cura della vita, al di là della cura dell’anima che ha le caratteristiche di una continua proiezione-appropriazione del proprio senso di essere realizzato”.
Dal punto di vista di una descrizione della fenomenologia della morte, possiamo dire che il vivente non si percepirebbe come mortale se non vedesse la morte di altri; cioè il vivente percepirebbe soltanto lo scorre del tempo e quindi lo scorrere del proprio tempo biologico, delle stagioni, dei giorni e così via, ma se fosse un vivente solitario non saprebbe della propria morte. Poiché una fenomenologia, un tentativo di descrivere un dato dovrebbe andare alla radice della cosa da descrivere, partendo dal presupposto che il vivente sia un solitario, egli non apprenderebbe il senso della morte se non avesse accanto a sé qualcuno che a un certo punto non dura più. Allora, da questo punto di vista, possiamo cogliere nella struttura dell’essere vivente il fatto che il durare è semplicemente uno scorrere.
Come ci accorgiamo della differenza tra la morte ed il morire? Il morire diventa appunto l’impossibilità di trattenere il fluire del tempo. Nessuno di noi riesce a fermare il tempo; ad esempio non posso dire una mattina: “Oggi mi fermo qui perché è una bella mattinata e si sta bene”; il tempo passa, sia quello cronologico che quello personale ed il suo passare ci dice l’esperienza del morire. Questa è, infatti, un’esperienza che possiamo fare continuamente: il passare del tempo che dal presente va verso il passato è in qualche modo l’esperienza del tempo morto, dove il tempo passato è il tempo morto.
L’esperienza della morte è, invece, sempre e comunque traumatica, sia che essa avvenga per morte naturale, cioè che si collochi alla fine del tempo dovuto, oppure tragica, per malattia, per incidente e quindi per interruzione improvvisa. L’esperienza della morte è quella che, in qualche modo, ha sconvolto e sconvolge l’essere umano che, in quanto vivente, reclama un suo diritto di vivere ed in questo suo reclamare percepisce la morte come scacco. Da questo punto di vista è interessante tenere presente che il pensiero della morte, nella sua articolazione generale, ha sempre avuto il senso di una paura da esorcizzare che si può fare con una sorta di anestesia della coscienza o anestesia che può diventare un “mettere il pensiero tra parentesi”.
La paura della morte caratterizza fondamentalmente l’uomo e non potrebbe non caratterizzarlo in quanto essa deve essere una costante della vita. Dal punto di vista di una analisi antropologica per capire l’essere umano, è interessante notare che questa paura non può non esserci: infatti se essa manca, non c’è autenticità della vita. Per me l’aspetto importante che troverete anche in questi appunti è che l’uomo si caratterizza fondamentalmente come vivente; l’uomo, anche quando interiorizza e si impossessa della propria morte, se ne impossessa nei termini del compimento della vita e quindi come senso vitale.
Un altro pensatore del 1600, Blaise Pascal, faceva osservare che l’uomo è certamente una canna fragile, canna al vento, ma è anche l’unico essere che sa di dover morire. Questo sapere della morte apre una tragicità nella prospettiva dell’esistenza che acquista il significato del tentativo di fuggire, quello che Pascal chiamava il ‘divertimento’, le divertissement, cioè la distrazione , il dis-traere, disunire, e quindi un divertere dal pensiero che si vuole abbandonare. Per cui ecco la iper attività della vita, il godimento, il rifugio in altre forme che significano il non voler pensare alla morte.
Da un lato, si ha la fuga nella dimensione del pensiero teoretico, pensiero dell’essenza, pensiero del tutto, e dall’altra la fuga nel pensiero del divertimento: cioè nel non pensarci, nel pensare ad altro, perché tanto quando arriverà la morte sarà un’altra cosa. Già a partire da Epicuro la filosofia aveva elaborato il famoso sofisma: “In fondo perché preoccuparsi della morte? Quando c’è lei non ci sono io e finché ci sono io non c’è lei”.
In realtà, la morte si presenta con una dimensione di radicale alterità perché essa è l’assenza che non posso in alcun modo aver presente; anche quando l’ho presente come morte dell’altro; di fatto non ho presente la percezione della morte perché l’uomo quando compie un’attività di percezione ha bisogno di avere di fronte l’oggetto che percepisce ed allora una cosa è l’aver davanti il morente, altra cosa è invece aver davanti la morte. Posso percepire il morente e, con un atteggiamento empatico, essergli accanto, mettermi al suo posto, ma al tempo stesso percepisco lui e i suoi stati d’animo, ma non la morte, soprattutto non la mia morte perché per poterlo fare dovrei fare quella che, in termini tecnici, si chiama una sorta di anticipazione memorativa.
Per prevedere la mia morte ed avere davanti a me l’oggetto di questa percezione dovrei fare un’anticipazione, ma l’uomo può percepire in maniera anticipante soltanto ciò che è già stato presente nella sua coscienza come memoria. Per farvi un esempio concreto: se io non sono mai stato in un luogo ma prevedo, pre-sento come sarà la mia visita a quel luogo, la mia pre-visione sarà in funzione di un qualcosa già passato, una esperienza già passata, quindi qualcosa che ho già nella mia coscienza. L’uomo non può fare altro, se prefigura qualcosa può farlo a partire da una esperienza passata ma della morte non si ha una esperienza passata.
Questa impossibilità di sperimentare la morte esiste perché non c’è possibilità di anticipazione memorativa. La morte è il limite della pensabilità; l’uomo non può pensarla, non può pre-vedere né la propria né la morte altrui, per cui essa si presenta come situazione limite, uno scacco al pensiero ed all’esistenza (come afferma Karl Jaspers) che però diventa una cifra della trascendenza, un modo di poter pensare la trascendenza - non come riferimento a Dio o a un essere superiore - ma a qualcosa che mi trascende. La morte è ciò che non può mai essere immanente, mai presente. Questa espressione viene colta anche nell’aforisma del mondo latino che affermava: “mors certa, ora incerta”, sebbene anche questo non sia sufficientemente vero in quanto il modo migliore per esprimere questa assoluta trascendenza sarebbe un altro e cioè: la morte è certa, ma anche l’ora lo è, solo che mi è ignota.
L’uomo è un vivente mortale
C’è anche un’altra dimensione, importante per capire il senso della morte, che potrebbe essere fatta all’interno dell’esperienza del vivente il quale si trova dentro un orizzonte di flusso temporale e non può uscire da esso perché non può arrestare né il tempo biologico, né il tempo cronologico né il tempo psicologico-coscienziale ed è che essa, nella sua trascendenza ed assenza è comunque la presenza costante, ineliminabile dentro la vita. Poiché il passare del tempo è andare ogni volta da un tempo vivo ad un tempo vissuto ed il tempo vissuto è tempo morto, quello che non posso più riprendere, nella percezione esistenziale abbiamo costantemente il passare inarrestabile del tempo che mi dice anche la presenza di una assenza. L’uomo a questo punto si scopre come vivente, ma anche come vivente mortale perché lo scorrere del tempo gli fa capire la sua dimensione di mortalità, di un suo finire, di un andare verso la propria fine.
Da un lato il fluire del tempo ci rimanda all’esaurimento del tempo stesso, dall’altro il durare assume il significato di andare verso la propria fine, quindi non come permanenza, ma “fino a un certo punto”. Durare nella vita significa allora continuare a ricevere il tempo e qui viene uno dei problemi più forti dell’esperienza del morire, per capire il quale proviamo a cogliere l’esperienza del tempo in questo senso.
Proprio nella misura in cui abbiamo l’esperienza del fluire del nostro tempo esistenziale, credo che dobbiamo ricuperare una dimensione fondamentale della nostra temporalità. Questo, per certi versi, è il dramma dell’uomo contemporaneo, il dramma dell’uomo in genere, quando cerca di rispondere alla domanda: qual è il senso della mia vita? In pratica, una delle famose domande classiche che ognuno si pone: da dove vengo? dove vado? chi sono? e così via.
Perché queste domande diventano così rilevanti? Perché, di fatto, nel momento in cui mi interrogo sulla mia provenienza questa non è una domanda banale. La riflessione che stiamo tentando di fare cerca di non tenere conto della dimensione religiosa per poter essere una ricerca antropologica utilizzabile anche in altri contesti. In questa dimensione ci accorgiamo che, nella misura in cui ci chiediamo il senso, la partenza della vita, o ci ritroviamo come esseri gettati nel mondo, oppure possiamo trovare l’altra dimensione, quella del tempo donato, del tempo gratuito.
Qui si inserisce un’altra riflessione importante. Il mio tempo è donato, ma anche se sono gettato nel mondo, non sono io che continuo a tenermi in vita; c’è qualcun altro, qualche altra cosa, forse il codice genetico iscritto nel mio DNA, ma non dipende da me né quanto tempo ho a disposizione né come si struttura questo tempo. Il tempo della mia vita è estrinseco alla mia possibilità di padroneggiarlo: non posso farlo.
Una frase detta spesso che fa riflettere: “E’ giusto che un giovane muoia?”. Percepire la dimensione di gratuità del tempo significa che non possiamo reclamare un diritto su di esso; nessun vivente, in nessun contesto ed in nessun senso può farlo. Nessuno di noi può reclamare un diritto alla data della propria morte, però, mentre non abbiamo alcun diritto sul tempo, abbiamo un dovere su di esso che si traduce in un diritto alla vita. Da questo diritto alla vita occorre ristrutturare il senso del diritto alla morte.
Riflettiamo ancora per un momento sull’aspetto del diritto e dell’ingiustizia nei confronti della morte e del morire dell’altro. Certamente noi percepiamo la morte come una frattura, un’interruzione, qualcosa di non realizzato, però non è vero che il morente accompagnato e in condizioni di solidarietà percepisca il tempo della propria morte come furto, interruzione. Non sempre il tempo compiuto è un tempo interrotto o esaurito. Piuttosto, nell’orizzonte della gratuità in cui occorre porsi, si coglie anche un altro aspetto, quello dell’istante, che è quello della gratuità dell’esistere.
La gratuità della vita, la gratuità del tempo che scorre non hanno un termine prefissato, nel senso che non avendo noi alcun diritto alla gestione del nostro tempo, non avendo la possibilità di controllarlo, ci dobbiamo mettere a riflettere sul nostro morire per tornare a guardare la vita con occhi diversi, a partire dall’esperienza della morte.
Dicevamo che l’esperienza della morte è comunque laterale, derivata, non diretta, perché da questo punto di vista ciascuno muore in prima persona, muore soltanto per sé, muore soltanto una volta e vi è quindi l’impossibilità ad una possibilità di recupero. La morte si presenta come condizione del ‘possibile perennemente possibile’, e nel momento in cui arriva diventa fine delle possibilità. Per cercare di capire il senso del morire, a mio avviso dobbiamo cogliere la dimensione della morte dell’altro ed attraverso questa, imparare a guardare il nostro vivere. Guardare la vita con gli occhi della morte non è un’espressione lugubre, non significa guardarla con occhi vuoti dello scheletro ma avere la capacità di riflettere sulla vita e tentare una assolutizzazione del tempo della vita.
Poiché non sono padrone del tempo che mi è dato, che mi è concesso, che mi è messo a disposizione, io devo assolutizzare questa disponibilità di tempo e di dono che mi vengono fatti, proprio perché non so se ci sarà un domani, orizzonte trascendente della possibilità della mia morte, che può essere fra poco, tra dieci anni o fra un minuto. Questa impossibilità di padroneggiare il tempo diventa la sua radicale gratuità e l’uomo, il soggetto vivente in questa gratuità deve essere capace di vivere il tempo come assoluto. Il tempo esaurito o compiuto allora non è necessariamente o cronologicamente lungo, ma può essere anche un tempo molto stretto. Da questo punto di vista, il tempo del morire non è necessariamente un tempo che possiamo misurare in termini di spazialità ma piuttosto dovrebbe essere misurato in termini di intensità.
Sulla gratuità del tempo vorrei insistere, perché penso che sia uno dei grandi equivoci da sfatare a livello esistenziale, cosa che la nostra cultura non ha ancora fatto. Per chi ha un’attività di cura del morente, credo che uno degli elementi forti da sfatare sia che morire significhi essere derubati del tempo. Non potendo reclamare un diritto sul tempo della vita, ma ponendosi nell’atteggiamento di ricezione di un dono, non possiamo reclamare un diritto sulla lunghezza.
Noi non sappiamo qual è il senso della vita e non possiamo decidere questo senso, ma se ci disponiamo nell’ottica che accennavo poco fa di guardare la vita con gli occhi della morte, dobbiamo anche imparare a vedere in un altro modo ed il pensare la morte diventerà un pensare alla morte, cercando di tradurre questo pensiero della morte in un pensiero della vita. Pensare alla morte significherà diventare in qualche modo accorti; cioè accorgersi della morte ci fa essere accorti da un punto di vista esistenziale e quindi diventiamo consapevoli, attraverso l’esperienza della morte dell’altro, che il vissuto che abbiamo a disposizione non può essere sprecato.
Sebbene un po' forte, questa è una mia profonda convinzione: “Il tempo della vita si dispiega tutto in questa duplice possibilità: benedizione o maledizione; che sia l’una piuttosto che l’altra dipende da noi, è l’evento della nostra vita, ma la vita può anche essere dilapidata ed anche questa è una possibilità essenziale”. Quest’ultima cosa è quanto dipende esclusivamente da noi. Non abbiamo il diritto di reclamare il tempo, non abbiamo la possibilità di controllarlo, ma abbiamo la possibilità di controllare l’utilizzazione del tempo della vita. Se il tempo viene riempito, l’esperienza del morire diventa un dare senso alla vita; cioè riesco a dare un senso alla morte dal senso che do alla mia vita.
Nell’esperienza del morire c’è la speranza dell’uomo
Questo aspetto è un altro degli elementi forti, almeno per quanto mi riguarda. La morte è certamente una situazione limite, è il momento in cui c’è uno scacco che ci mostra tutta la nostra piccolezza, ma la l’esperienza che non va dimenticata, che ognuno di noi ha fatto o fa nell’assistenza ai morenti, o farà come esperienza personale è, come dicono San Paolo ed Orazio, contenuta nella frase: “Non morirò completamente”. Di fatto, nell’esperienza del morire quotidiano, del passare del tempo, ed a maggior ragione nel morire del malato terminale, c’è presente la speranza.
Questa speranza cos’è? Non è semplicemente l’utopia della distrazione, del divertimento che si diceva prima, non è un voler allontanare il pensiero della morte. La speranza significa essere animati da un desiderio di eternità: questa è una esperienza molto forte colta anche da coloro che stanno accanto a malati terminali, credenti e non credenti, che al momento del compimento della propria vita sono riusciti a dare un senso alla loro esistenza, mostrando così la presenza di un desiderio di trascendenza assolutamente inspiegabile. Questo vuol dire che all’interno dell’esperienza della morte, nel compimento del senso dell’esistenza si gioca un desiderio di vita che è un desiderio di eternità. Questo desiderio di eternità, a quel punto diventa un’altra cosa ancora, della quale stavolta siamo responsabili nei confronti del morente, che Gabriel Marcel racchiude nella frase: “Amare significa dire all’altro tu non morirai”. Questa espressione molto forte ci porta a concludere che alla fine, nel compimento del tempo, il senso che riusciremo a dare diventerà molto importante.
A questo punto sorge il problema dell’accompagnamento alla morte. Così come non è possibile avere una esperienza della morte se non a partire da una esperienza di solidarietà (cioè noi riusciamo a cogliere la morte nella sua essenza attraverso la morte dell’altro) la stessa percezione del durare è condizionata dalla morte dell’altro ma anche il senso della morte o della morte dell’altro è in qualche modo fortemente legato all’esperienza dell’altro, non solo in una dimensione di estrinsicità ma in una dimensione di responsabilità.
Una delle cose più drammatiche del nostro tempo è che il morire di qualcuno ha bisogno di una solidarietà radicale che dica che il compimento del proprio senso avviene nell’assunzione di una responsabilità nei confronti dell’altro. Questa vicinanza non è soltanto l’accompagnare ma “l’essere compagno di...”.
Come l’uomo ha bisogno di compagni di strada durante la sua vita per cui originariamente “non è bene che sia solo”, questa responsabilità di reciprocità che vale per la vita, deve a maggior ragione valere per la morte. Si comprende allora che il mio tempo è condizionato dal tempo dell’altro perché è l’impegno alla disponibilità, alla responsabilità, che si traduce in un diventare responsabili della morte dell’altro, ma non in maniera estrinseca, non semplicemente nella forma di una buona volontà, ma in quell’ottica che fa sì che l’accompagnare la morte dell’altro significa anche tentare di cogliere il senso della mia vita.
“Traboccavi di vita, quella mattina, e mi parlavi della morte come di una cosa naturale. Nel mio intimo ti ho reso un grazie di cuore per avermi reso testimone di ciò”. Cioè, trovare nell’altro che muore non soltanto l’interruzione di un tempo, ma la possibilità di un senso per sé. Credo che la nostra cultura abbia rimosso il pensiero della morte, relegandolo a pensiero lugubre, ma io ho l’impressione che se riusciamo a fare questo rovesciamento di prospettiva sarà tanto di guadagnato per noi.
Questo vale anche se riusciamo a farlo capire ad un ragazzo, a nostro figlio, perché se diciamo ad un ragazzo di 15 o 18 anni: “guarda che devi morire”, stiamo distruggendo la sua psicologia, ma se gli diciamo: “guarda che il tuo tempo è importante, è prezioso, perché in questo tempo devi riuscire a dare un senso alla tua vita, a diventare gestore di te stesso”, riesco a farlo mettere in un’ottica in cui la percezione del proprio vissuto è questa radicalizzazione di un tempo esistenziale che non va sprecato.
I nostri ragazzi sprecano un mare di tempo, anche noi lo facciamo, ma questo significa a volte doverlo ricuperare ed è, molto spesso, il racconto fatto da molti malati terminali, molti morenti. Allora il tempo della morte ed il tempo del morire, proprio e dell’altro, possono diventare, nell’assunzione di responsabilità per la morte dell’altro, anche un trovare nel senso della morte il senso della vita. Il curare la morte significa, di fatto, non curarsi di un passato e del passare, ma preoccuparsi del vivente. Questo diventa molto importante perché se la morte e l’accompagnamento finale avvengono in questa dimensione di cura e preoccupazione, sono veramente un tempo di grazia e un tempo del grazie. Se il momento finale diventa un momento di disperazione o un momento sereno di grazie dipende proprio dalla capacità dell’accompagnare alla morte.
Oltre il diritto alla vita anche il diritto alla propria morte
Si muore sempre in prima persona e sempre per la prima volta; in questo c’è un aspetto molto importante. La dichiarazione dei diritti dell’uomo del ‘48, dichiarazione universale che ritroviamo oggi come paradigma di molti comportamenti, prevede un diritto alla vita. Io credo che ci dovrebbe essere anche la previsione di un diritto alla propria morte perché se è vero che nessuno muore due volte, che ciascuno muore in prima persona e così via, il momento di estrema identità e identificazione di se stessi è la morte. Cioè, la morte diventa il momento in cui l’identità di ciascuno si compie e si realizza.
Da un punto di vista antropologico della descrizione dell’essere umano, è interessante vedere come mi sento nel momento in cui sono capace di descrivermi, di raccontarmi. Ma quando sarò capace di farlo se non attraverso un gesto banale, uno sguardo, nell’ultimo momento di ricapitolazione della mia esistenza? Da questo punto di vista penso che, in una cultura dove la morte viene nascosta, ospedalizzata e anonimizzata, resa cosa da tenere nascosta, si stia mancando profondamente ai diritti dell’essere umano perché tra i diritti dell’uomo oltre al diritto alla vita c’è anche il diritto alla morte, essendo essa non estranea alla vita. La morte, in quanto compimento del senso della vita, appartiene radicalmente alla vita; non saremmo dei viventi se non ci fosse anche quel momento, per cui ricuperare l’aspetto di profondo rispetto della morte significa riconoscere l’identità radicale di ciascuno.
In questo senso l’accompagnamento diventa molto importante, sia da un punto di vista psicologico, che religioso e così via. Perché, come nell’esistenza quotidiana spesso smarriamo la capacità di trovare il nostro senso per cui può capitare che attraverso un gesto, una parola, un comportamento una persona mi dica: “Fammi capire che sto sbagliando il mio percorso esistenziale”, in questa dimensione può accadere che la persona, per dolori fisici, per la situazione di alienazione globale percepita, per la sensazione di avere ancora qualcosa in sospeso con la vita ha, nei confronti della morte, un atteggiamento assolutamente incerto. La capacità di aiutare a risolvere questi momenti alienanti, queste strutture in dissidio, credo sia il compito di colui che accompagna: cioè la pacificazione con la vita. Accompagnare alla morte diventa allora accompagnare al compimento della propria identità, che comunque dipende dall’identità dell’altro. E’ un passo ulteriore che a mio avviso va fatto, perché questo momento di identificazione radicale della vita a partire dalla morte diventa una esperienza forte che dovremmo essere capaci di comunicare, come positività di un pensiero.
Ma quando non è possibile comunicare queste cose perché o il morente ha dei momenti di sofferenza fortissimi, oppure per incapacità di comunicazione?
Nel libro: “La morte amica” c’è il racconto di un’esperienza dove si percepisce che la persona non in grado di comunicare o di esprimersi riesce comunque a comunicare qualcosa. Vi si parla della donna con il volto sfigurato, trasformato dalla malattia e vi si dice che ad un certo momento, dopo l’accompagnamento, il suo viso comunque deturpato, comunque irriconoscibile, comunque alienato, manifestava uno sguardo pacificato, tranquillo.
Ricordo un altro tipo di esperienza fatta lo scorso anno durante una riflessione sulle relazioni interpersonali discusse in un corso di aggiornamento per cerebrolesi a Mantova, quando le operatrici mi raccontavano che questi ragazzi, che non reagiscono a nulla, di fatto reagiscono in modo paradossale ad una carezza, ad un massaggio durante il bagno e così via. Cioè il corpo dell’altro reagisce in qualche modo e questa reazione può significare: “Sono tranquillo”.
Non dobbiamo ricercare la consapevolezza, perché talvolta diventa qualcosa di molto più semplice, quasi la capacità di tirare le somme. Questo tirare le somme talvolta non siamo in grado di farla da soli; il malato terminale rischia di non essere in grado di farlo da solo, per cui aiutare qualcuno a farlo significa aiutarlo a trovare il compimento della propria esistenza. Naturalmente, ognuno di noi si augura che ci sia qualcuno che ci aiuterà a tirare le somme e questo credo sia il momento dell’accompagnamento e il compimento del senso. Se nel tirare le somme c’è qualcosa in negativo che non me le fa tornare, riuscire a risolvere questa negatività, credo sia veramente la responsabilità dell’assistenza al morente.
Al di là di tante parole e tanti atteggiamenti, non è mai l’elemento teorico o l’elemento complicato che riesce a risolvere simili situazioni. Credo che ciascuno di noi abbia avuto esperienze del genere e continui ad averle: quando, in certi casi nei quali ci sentiamo incapaci e limitati, spesso basta una stretta di mano, un sorriso, una presenza per ridare significato. A volte non c’è bisogno di parole, a volte i malati hanno semplicemente bisogno di una persona che stia seduta accanto a loro perché questa presenza rompe un silenzio, un’assenza, e dà modo di ritrovare il desiderio della vita, del senso e della speranza, anche rimanendo la certezza della fine.