Una battaglia di civiltà da vincere

Segnaliamo l'articolo di Umberto Veronesi, Una battaglia di civiltà da vincere uscito su La Repubblica del 27 febbraio 2015.

La bellissima testimonianza di Michele pubblicata coraggiosamente ieri su queste pagine ci ha dato un’immagine concreta di cosa avviene in un reparto dove medici, malati e familiari incontrano quotidianamente la fine della vita, ma soprattutto ci ha dato la misura dell’assurdità della situazione legislativa del nostro Paese, che mostra un vuoto preoccupante su questo tema. È giusto tenere in vita una persona che scivola in una vita artificiale simile a quella di un vegetale, senza udito, vista, gusto, tatto e senza coscienza?

È giusto prolungare di qualche giorno, settimana o mese, un’esistenza che è soltanto una serie di interminabili minuti di dolore a causa di una malattia terminale? A queste domande non c’è risposta di principio, e il peso dell’inevitabile agire — spesso nel corso di un‘emergenza — ricade dunque interamente sulla coscienza etica del medico. Ma quale etica? C’è un’etica cattolica, una materialista, una laica. Allora esiste un solo ago della bussola che può orientarci in questo smarrimento ed è la volontà della persona.

Questa volontà può essere espressa innanzitutto attraverso il testamento biologico, che è la dichiarazione scritta anticipata delle cure che si desidera o non si desidera ricevere — in particolare se si sceglie di essere mantenuti artificialmente in vita — da utilizzare in caso di sopravvenuta impossibilità di intendere e di volere. Per intenderci, è il caso Eluana Englaro, che restò in coma vegetativo permanente per quasi vent’anni, finché il padre Beppe riuscì ad ottenere l’interruzione della vita artificiale. Oppure la propria volontà si può esprimere lucidamente e consapevolmente nel caso in cui una malattia senza alcuna speranza renda la vita insopportabile per il dolore fisico e la sofferenza psicologica. Allora parliamo di eutanasia. In entrambe le situazioni, però, la volontà va tutelata da una legge, perché esprime un diritto civile fondamentale: il diritto all’autodeterminazione.

In Italia dopo decine di disegni di legge e un dibattito acceso a seguito appunto della battaglia personale di Beppe Englaro nel 2009, l’iter di una legge sul testamento biologico si è completamente arenato. Certo, nessuna legge è meglio di una cattiva legge (come era l’ultima in discussione in Parlamento), ma il risultato finale è che i cittadini non conoscono per lo più l’esistenza e il significato del testamento biologico, e i medici non hanno alcuna certezza giuridica circa la sua eventuale applicazione. Per l’eutanasia siamo ancora più in alto mare perché il dibattito su una legge non è neppure approdato al Parlamento, malgrado l’appello di molti movimenti di cittadini e addirittura del nostro ex capo dello Stato, Giorgio Napolitano.
Ma dell’incertezza politica chi fa le spese è la persona sofferente: questo ci insegnano le storie di Michele e di tanti altri. In assenza di regole viene calpestato in Italia il sacrosanto diritto di non soffrire.

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