Riportiamo di seguito l'articolo di Michela Marzano uscito sulle pagine de La Repubblica il 9 dicembre 2016.
“Nonostante siano ormai passati dieci anni dalla morte di Piergiorgio Welby, la questione del fine vita, in Italia, resta ancora aperta. Cioè. I tribunali cominciano a riconoscere l’esistenza del diritto per i malati di rifiutare le cure — si pensi da ultimo al caso di Walter Piludu — , ma non c’è alcuna legge organica sulle direttive anticipate dei pazienti, sul testamento biologico o sul modo in cui il personale medico debba comportarsi di fronte all’agonia di chi, tra la vita e la morte, si trova nel limbo delle sofferenze e dell’altrui arbitrio. Certo, il coraggio sovrumano di un uomo come Beppino Englaro, il papà di Eluana, comincia a dare i suoi frutti: dopo quindici anni e nove mesi di battaglie giuridiche per «intravedere la possibilità di strappare Eluana a quell’inferno che lei non voleva», come ha dichiarato Beppino alcuni giorni fa durante un’intervista a Repubblica, si è prima pronunciata la Corte di Cassazione, poi il Consiglio di Stato riconoscendo l’esistenza del diritto per ogni persona di sottoporsi o meno ai trattamenti sanitari. Certo, commentando ieri la sentenza del Tribunale di Cagliari sul caso Piludu, il professor Mario Sabatelli, primario al Gemelli di Roma, ha ribadito l’esistenza, per tutti, del diritto di morire con dignità e senza dolore, sedati e accompagnati con serenità fino alla fine. Certo, il Codice di deontologia medica prevede ormai da tanti anni che il consenso informato di ogni paziente sia il presupposto necessario dell’attività diagnostica e terapeutica di ogni medico. Ma è mai possibile che il legislatore si sottragga ancora al compito di dare forma giuridica certa e vincolante al diritto di ognuno all’autodeterminazione nella scelta delle cure mediche, ivi compreso il rifiuto di ogni trattamento terapeutico? Perché affidarsi ancora alle scelte discrezionali di alcuni medici e di alcuni magistrati senza che il problema del “lasciar morire” con dignità sia affrontato a livello legislativo?
La frattura tra coloro che assimilano l’interruzione dell’accanimento terapeutico all’omicidio e coloro che difendono l’esistenza di un diritto di morire quando lo si desidera è molto profonda. C’è ancora chi dà per scontato che un medico sappia sempre e comunque meglio di chiunque altro ciò che si debba o meno fare in determinate circostanze, indipendentemente dalla volontà dei pazienti. C’è ancora chi “scaglia come una pietra” il principio della dignità umana per imporre a chi sta morendo, e soffre, sofferenze supplementari invece di prendere sul serio questa dignità e smetterla quindi di ostinarsi, in maniera talvolta irragionevole e disumana, a voler mantenere in vita coloro che, dalla vita, si sono già allontanati. C’è ancora chi invoca la “sacralità della vita” senza pensare nemmeno un istante alla “qualità di vita” di chi vorrebbe solo che la morte accadesse senza ulteriori sofferenze.
Ma ognuno di noi, in quanto persona degna di rispetto, non ha forse il diritto di essere riconosciuto come “soggetto della propria vita” fino alla fine, anche in punto di morte? Non è forse dovere del legislatore prevedere una norma che permetta a chiunque si trovi in fin di vita — col proprio consenso oppure col consenso dei familiari (se non si ha più la possibilità materiale di esprimere la propria volontà) — di rifiutare l’accanimento terapeutico oppure anche di richiedere la somministrazione di trattamenti finalizzati alla diminuzione delle proprie sofferenze, anche nel caso in cui questi farmaci possano avere come effetto secondario quello di accelerare l’esito mortale della patologia in atto? Non è giunto il momento di riconoscere a livello giuridico la possibilità per ognuno di noi di redigere direttive anticipate di trattamento?
Compito del medico, ci spiega il professor Sabatelli citando Pio XII, è lenire le sofferenze, anche quando i farmaci dovessero accelerare la morte di un paziente. È la celebre “teoria del doppio effetto”, nota ai filosofi morali sin dall’epoca di San Tommaso, che permette di distinguere chiaramente tra il “far morire” e il “lasciar morire”, “l’eutanasia attiva” e “l’eutanasia passiva”, “l’eutanasia diretta” e “l’eutanasia indiretta”, senza mai dimenticare che questo termine così controverso, eutanasia, significa letteralmente “buona morte”, e che morire bene è quello cui anela ciascuno di noi.
Lo sa bene chi conosce la sofferenza — la vede, la tocca, la sente, la vive, direttamente o indirettamente, sulla propria pelle o immedesimandosi nel dolore di chi ci è caro o di chi attende le nostre cure. Lo sanno i pazienti e lo sanno i familiari dei pazienti; lo sanno i medici e lo sanno le infermiere; lo sanno, in fondo, tutti coloro che l’umanità l’attraversano evitando di giudicarla. Ce lo ricorda Mario Sabatelli, criticando fermamente quei medici che si arrogano il diritto di intubare malati che hanno detto di no, talvolta per ignoranza, talvolta per presunzione. Ce lo mostra Beppino Englaro, portando avanti per 5.750 giorni e notti la battaglia del “ben morire” nel nome e nella dignità di sua figlia Eluana — lo avrebbe fatto chiunque, continua a ripetere ancora oggi Beppino, dicendo che ora può ricominciare a dormire di notte, prima no, non poteva, doveva difendere la sua bambina. Ma non tutti avrebbero avuto la sua forza e il suo coraggio, ed è giunto il momento di avere una legge che sancisca, per tutti, il diritto al rispetto della propria umanità.”