Pubblichiamo di seguito un commento di Adriano Sofri pubblicato su La Repubblica del 3 febbraio 2010 a pag. 45
Guardarsi dall' abusare delle metafore, e specialmente, avvertiva Susan Sontag, della malattia come metafora. L'anima prigioniera del corpo è un'immagine cara a molte filosofie e religioni, ma cambia di senso se la si pronuncia di fronte a un corpo imprigionato dal male, o recluso in una cella. Tony Judt è uno storico inglese nato nel 1948, insegna a New York, molti suoi libri e saggi sono tradotti in italiano. Un paio di settimane fa ha scritto per la New York Review of Books, cui collabora regolarmente, un articolo diverso da tutti gli altri, a cominciare dal titolo: "Notte". Soffro, dice, di Sla, la sclerosi laterale amiotrofica. È un testo che commuove e fa pensare. Qui ne estraggo, per il mio proposito, una serie insistita di passi in cui la malattia viene accostata alla prigionia. «La Sla equivale a un imprigionamento progressivo, senza possibilità di libertà condizionale... Viene la notte; resto allungato, legato, immobile come una mummia, solo nella mia prigione corporale... Neanche l'amico o il parente più premuroso potrà comprendere il senso di isolamento e la sensazione di imprigionamento che questa malattia impone alle sue vittime... La Sla è una pena a vita, un ergastolo - e non la pena di morte di cui a volte parliamo, che sarebbe in realtà un sollievo... Le mie notti somigliano a quelle degli altri, in apparenza: ma quello che passa fra andare a letto e alzarsi è incomunicabile... il meccanismo di sopravvivenza di cui si sente parlare solo dai superstiti di catastrofi naturali o di celle di isolamento». Ma se la malattia è una prigionia, la prigionia sarà essa stessa una malattia. Non bisogna aver paura di andare avanti con l'analogia. La notte del prigioniero - la luce perenne, la conta, i ferri battuti - somiglia a quella del malato immobile e insonne: e ci sono infermieri impazienti come carcerieri, e carcerieri soccorrevoli come infermieri. Sono successe un paio di cose rivelatrici, indipendenti l'una dall'altra, nei giorni scorsi. Di una sono stato partecipe: un convegno sulle "Terapie intensive aperte" alla facoltà di medicina pisana. Vi si faceva il bilancio di un'esperienza cominciata ormai da tre anni, e che dapprincipio sarebbe sembrata impensabile: l'apertura dei reparti di rianimazione ai parenti, senza le drastiche limitazioni di orario e modalità che vi vigono tradizionalmente. Studi seri mostrano che i pazienti ne ricevono un sostegno significativo: ma non è solo del frutto strettamente terapeutico che si tratta. Certo nelle terapie intensive c'è un bisogno di riserbo, tranquillità, rispetto. Ma c'è anche un'abitudine inerte al corpo separato del paziente (uso di proposito queste parole, per evocare l'altra metafora di successo, quella sui "corpi separati" dello Stato), sofferente e interamente passivo, e alla corporazione separata dei curanti, al medico-mago-sacerdote e al suo spazio vietato. Una volta ho raccontato qui il mio passaggio dalla rianimazione come una peculiare esperienza di tortura, e sia pure di una tortura a fin di bene: esperienza comune a tanti altri, che non basta il curaro a spiegare. Nell'anestesia, il coma farmacologico, il delirio, si ha l'impressione - la certezza, vivida e angosciosa - di capire tutto, di vederci chiaro: così per la tortura, di afferrarne il segreto intimo. La chiaroveggenza ha nel suo modo delirante a che fare con la paranoia, e la paranoia con una effettiva persecuzione. Il corpo del malato è in balia del torturatore alla rovescia. In qualunque circostanza, il corpo in balia d'altri ha bisogno di visibilità, per essere salvato dalla paura e dalla mortificazione. Deve avere qualcuno dalla sua, i suoi cari, e qualcuno che testimoni, che veda, per sventare o arginare l'arbitrio, o per raccontarlo e vendicarlo. L'altro episodio di questi giorni è un appello - partito sul Manifesto, sulla scia dell' emozione furiosa per la sorte di Stefano Cucchi - perché le nostre orribili galere siano aperte ai giornalisti. Al di là dei luoghi estremi, la trasparenza è una condizione decisiva e pressoché un sinonimo di democrazia. Non solo dove si tratti di divincolarsi da un regime dispotico, come nella glasnost dell'ex Urss. Autoritarismo e corruzione si nutrono normalmente dell'invisibilità e della proibizione. Corpi separatie Affari riservati, appunto. A un capo stanno gli arcana imperii, le segrete e le segreterie, la clausura e le camere oscure, le innumerevoli "case chiuse" - persiane di bordelli, bocche di lupo di carcerie manicomi, caserme, grate di burqa, panni sporchi lavati in famiglia. L'ingresso vietato ai non addetti ai lavori, agli estranei - perquisizioni di "guardioni" all'uscita della fabbrica, fili spinati, muri di pietra e di gomma. E, a risarcimento beffardo, il feticismo della privacy applicato all'evasione tributaria e agli scudi fiscali. Innumerevoli Stasi pubbliche e private braccano intanto le vite degli altri. Luce di fari sulle camere da letto (e sui cessi, l'occhio di grande fratello è incollato allo spioncino sul sesso e sul cesso), salvo che vi si mescolino scambi di favori, candidature, nomine, estorsioni, affari sanitari. Toccateli, e un'intera pedagogia improntata al divieto - dall'Eden in qua - si rianima di colpo. Medici e infermiere e dirigenti sanitari hanno cominciato a rompere un tabù in luoghi, come le terapie intensive, nei quali la proibizione si vorrebbe più fondata. Grazie a loro, la morte stessa può scampare all' abbandono e alla solitudine che alla fine tradiscono così spesso il senso dell'intera vita. Ma la trasparenza vale un intero programma politico, o civile. Meccanismi elettorali compresi. C'è una articolata proposta sull' "anagrafe pubblica degli eletti": perché non diventa, semplicemente, una proposta qualificante di tutto il centrosinistra? È la volta, sempre in questi giorni, delle notizie sui redditi di manager e banchieri. Non basteranno a invertire e forse neanche a rallentare la lunga marcia della disuguaglianza, ma serviranno almeno ad arrotondare la pensione sociale e i pensieri di chi sta in fondo, ad aguzzare gli ingegni degli arrampicati sui tetti.
ADRIANO SOFRI