Riportiamo qui l'articolo del noto giurista pubblicato su La Repubblica il 5 ottobre scorso.
"Rischia di avverarsi la facile previsione di chi, nell' "apertura" delle gerarchie ecclesiastiche ad una legge sul testamento biologico, ha subito visto non il riconoscimento di un diritto della persona, ma una mossa volta proprio a limitare quanto è già garantito dal nostro sistema costituzionale. Alla vigilia del dibattito parlamentare su questo tema caldissimo, il segretario della Cei è intervenuto in modo molto determinato, dettando i contenuti della futura legge. Fa il suo mestiere. Ma sarà il Parlamento capace di fare la sua parte, consapevole che l' unica sua guida sono i principi della Costituzione, non i valori proclamati da qualsiasi fede religiosa o ideologia? Il segretario della Cei ha detto che la vita è "indisponibile"; che non si può riconoscere un diritto all' autodeterminazione perché "questa è una visione che va contro le radici cristiane della nostra cultura"; che vi è "una condizione insicura sul piano giurisprudenziale". Sono argomenti fondati?
Equivoci pericolosi nascono proprio dall' insistenza su formule come "indisponibilità della vita", quando ad essa si voglia attribuire la specifica portata tecnico-giuridica di limitazione del potere di decisione della persona interessata, andando così oltre la forza simbolica che quell' espressione assume quando la si adopera per manifestare legittimamente una convinzione morale o religiosa.
Dal punto di vista tecnico, di indisponibilità della vita si parla correttamente solo per escludere la possibilità di disporre della vita altrui. Ma un vincolo alla libertà di decisione della persona interessata non può essere dedotto da nessuna norma costituzionale. Quando si dice che il riconoscimento e la garanzia dei "diritti inviolabili dell' uomo", di cui parla l' articolo 2 della Costituzione, implicano una indisponibilità della vita, si dà una interpretazione del tutto arbitraria di quell' articolo. Esso va letto nel quadro delle norme costituzionali sulla libertà della persona e sulla salute, che mostrano chiaramente come il diritto fondamentale da tutelare sia proprio quello relativo all' autonomia della persona, che comprende anche quello di disporre della propria vita. Lo dimostrano concretamente molti casi.
I più eloquenti sono quelli legati proprio al rifiuto delle cure: una donna, rifiutando l' amputazione di una gamba, ha scelto legittimamente di morire; una recentissima sentenza ha ribadito il diritto dei Testimoni di Geova di rifiutare le trasfusioni di sangue, anche se ciò determina la morte. La posizione della Cei entra clamorosamente in conflitto con questo dato istituzionale, riconosciuto e consolidato. Si possono certo discutere le modalità secondo le quali il rifiuto di cure può essere manifestato in vista di una incapacità futura. Ma non si può cancellare quel dato considerandolo incompatibile con "le radici cristiane della nostra cultura". Sarebbe gravissimo se il Parlamento seguisse questa impostazione. L' unica incompatibilità da tener presente, discutendo una legge, è quella che riguarda norme e principi costituzionali. Guai se alla Costituzione venisse sostituita qualsiasi tavola di valori ad essa esterna. La "radice" culturale del principio di autodeterminazione è salda e profonda nei principi costituzionali, espressi nitidamente nell' articolo 32. Qui, dopo aver considerato la salute come diritto fondamentale dell' individuo, si stabilisce che a nessuno può essere imposto un trattamento sanitario se non per legge: e tuttavia "in nessun caso" la stessa legge può violare il limite imposto dal "rispetto della persona umana".
È, questa, una delle dichiarazioni più forti della nostra Costituzione, poiché pone al legislatore un limite invalicabile, più incisivo ancora di quello previsto dall' articolo 13 per la libertà personale, per la quale si ammettono limitazioni sulla base della legge e con provvedimento motivato del giudice. Nell' articolo 32 si va oltre. Quando si giunge al nucleo duro dell' esistenza, alla necessità di rispettare la persona umana in quanto tale, siamo di fronte all' indecidibile, nel senso che nessuna volontà esterna, fosse pure quella coralmente espressa da tutti i cittadini o da un Parlamento unanime, può prendere il posto di quella dell' interessato. Da questa ricca trama di principi sono partiti i giudici che, affrontando le drammatiche questioni nate dai casi di Eluana Englaro e di Piergiorgio Welby, hanno delineato le modalità di applicazione di quei principi ai casi concreti, come è dovere d' ogni buon giudice. Nessuna invasione delle competenze del legislatore, dunque. All' orizzonte, invece, sta comparendo una prepotenza del legislatore, che vorrebbe espropriare le persone del diritto di governare liberamente la propria esistenza, vivendola dignitosamente fino al momento finale. Qui è il rischio ricordato all' inizio. Una legge che nelle apparenze riconosce il testamento biologico, ma in sostanza gli nega ogni valore vincolante, poiché lo subordina alla valutazione del medico e esclude che possa riguardare l' idratazione e la nutrizione forzata, che non sarebbero terapie rinunciabili. Questa è una ulteriore forzatura, perché sono in molti a riconoscere ad esse proprio il carattere terapeutico, come aveva fatto in Italia una commissione istituita dal ministro Veronesi. Di fronte alla diversità delle opinioni, in materie tanto delicate e difficili, dovrebbe essere buona regola per il legislatore lasciare gli interessati liberi di decidere secondo i propri convincimenti. Certo, la decisione dev' essere libera da ogni forma di condizionamento. Ma questo si fa astenendosi da pretese autoritarie e mettendo a disposizione di ciascuno servizi sociali adeguati, assistenza e terapie antidolore.
La discussione parlamentare sul testamento biologico metterà alla prova il senso dello Stato delle forze politiche e meriterà il massimo di attenzione dell' opinione pubblica. Ma sarà anche rivelatrice di molte ipocrisie. Si rischia d' essere doppiamente crudeli verso i morenti. Appropriandosi della loro libertà e dignità, da una parte. E, dall' altra, negando le risorse per i servizi ad essi destinati, come sta avvenendo, e annunciando la privatizzazione degli ospedali, senza riflettere sul fatto che proprio lì, nelle strutture private, sono stati chiusi reparti per la terapia del dolore perché economicamente non redditizi."
Stefano Rodotà