In questi giorni è uscito il nuovo Rapporto Italia 2011 eseguito, come ogni anno, dall'Eurispes, l'istituto di studi politici, economici e sociali. In tale Rapporto, quest'anno vi è una parte dedicata alla Cultura della salute e testamento biologico.
Pertanto riteniamo opportuno, oltre che riportare di seguito il comunicato stampa legato alla pubblicazione dei dati, pubblicare i dati relativi a tali argomenti.
Rapporto Italia 2011
L’Italia: una terapia della scelta
«L’Italia sta vivendo, insieme, una grave crisi politica istituzionale, economica e sociale. Tre percorsi – dichiara il Presidente dell’Eurispes, Prof. Gian Maria Fara – di crisi che si intrecciano, si alimentano e si avviluppano l’uno con l’altro fino a formare un tutt’uno solido, resistente, refrattario ad ogni tentativo di districarlo, di venirne a capo.
Abbiamo sempre rifiutato di attribuire alla sola classe politica la responsabilità di tutti i nostri mali perché questa rappresenta solo una parte della classe dirigente. Noi preferiamo riferirci ad una “classe dirigente generale” della quale fanno parte con ruoli e responsabilità tutti coloro che sono in grado, per le funzioni che esercitano, per il senso che possono affidare al loro impegno, per l’esempio che possono trasferire alla società, di esercitare un ruolo, anche pedagogico, di guida e di orientamento. Questa “classe dirigente generale” deve ri-costituirsi in una vera e propria grande “agenzia di senso” e ri-prendere in mano il destino e il futuro dell’Italia.
La nostra classe dirigente attuale, a differenza di quanto accade in altri paesi, non è né coesa né solidale. Possiede una grande consapevolezza di sé e nessuna consapevolezza dei problemi generali. Non è mai riuscita a costituirsi in élite responsabile. È più semplicemente il frutto della tradizione feudale che connota ancora il nostro Paese. La sua fragilità e la sua pochezza derivano dai meccanismi ereditari o di “cooptazione benevola” che ne hanno segnato i percorsi nel corso degli anni. Rari sono i casi che hanno visto premiato il merito, l’applicazione, le capacità.
Si stenta ad ammettere – prosegue Fara – che il modello di sviluppo realizzato in Italia nel dopoguerra, dopo aver prodotto risultati straordinari, si è semplicemente esaurito perché si sono modificate tutte le ragioni dello scambio sui mercati internazionali. Il modello italiano era una variante originale ed autoctona del capitalismo occidentale, genialmente adattato alla realtà di un Paese che non possedeva una ricchezza economica e che è del tutto sprovvisto di materie prime. Ora, dal momento che questo vecchio sistema non regge più, partendo da una indispensabile operazione verità, bisogna pensare ad una nuova prospettiva.
Tutto ciò richiede un ruolo attivo del pubblico e della politica per consentire al Paese di non restare indietro nei settori decisivi e strategici. Così come occorrerebbe mettere a frutto il ruolo e le capacità del nostro sistema delle piccole e medie imprese che costituiscono la vera ossatura dell’economia italiana. Quelle stesse imprese sui cui bilanci continua a gravare il costo di una burocrazia ottocentesca pervasiva e persecutoria che non è più soltanto quella dello Stato, ma è anche quella delle Regioni, delle Province e dei Comuni. Questa nuova pervasività è all’origine della crescita esponenziale di antiche e nuove forme di corruzione.
Queste come altre questioni – sottolinea il Presidente dell’Eurispes – non trovano spazio nell’agenda della politica, eppure segnano in profondità la qualità del rapporto tra cittadini e Istituzioni. E, nello stesso tempo, nessuno si pone neppure il problema di come favorire in ogni modo una rigenerazione dell’esperienza e della tradizione delle botteghe artigiane che sono state la vera specificità italiana ed, insieme, il terreno di coltura dell’imprenditoria e l’origine del vero Made in Italy: dalla sartoria alle calzature, dalle ceramiche alla meccanica di precisione, al design.
La stessa mancanza di riflessione che caratterizza i problemi legati alla crisi del nostro sistema industriale e dell’istruzione emerge con tutta evidenza quando si parla del turismo e tutti convengono immediatamente che si tratta di un settore strategico, adatto ad esaltare le vocazioni e le caratteristiche del nostro Paese. Anche in questo campo si tace la verità o la si sottostima: e la verità è che negli ultimi quindici anni, in mancanza di serie politiche per il territorio, il degrado ambientale e urbanistico ha eroso quello che poteva essere considerato un autentico giacimento di ricchezza per l’Italia. Non si vuole riconoscere che le regioni del Sud, ma anche quelle del Nord, non hanno tutelato a sufficienza il loro patrimonio storico, culturale e ambientale ed oggi, per riparare i guasti, occorrerebbero investimenti enormi.
Ma sulla realtà delle Regioni sembra quasi che non si possa dire la verità. Accade che antichi e convinti regionalisti come noi vengano accusati di essere ostili alle Autonomie solo perché mettono in discussione quello che non funziona anche a livello locale. Se si è per uno sviluppo complessivo e armonioso, le Regioni devono accettare l’idea che su alcune materie, dall’approvvigionamento energetico alla tutela ambientale, devono sottostare a disposizioni e leggi di carattere generale. Il federalismo può essere una grandissima occasione per ammodernare l’Italia a patto che venga prima rivista la riforma del Titolo V della Costituzione, che nel 2001 fu frettolosamente e imprudentemente approvata con qualche voto di maggioranza.
Nello scenario attuale, vi sono, secondo il Presidente dell’Eurispes, almeno due “bombe innescate”. Alcuni dicono che negli ultimi quindici anni il Paese sia rimasto fermo: le cose non stanno assolutamente così. Al contrario, in questi ultimi anni ci siamo fattivamente adoperati per distruggere quello che era stato costruito. Abbiamo fatto terra bruciata intorno alle Istituzioni repubblicane e ora i nodi vengono drammaticamente al pettine. Nelle scorse settimane molti hanno fatto finta di non accorgersi che l’Italia ha rasentato uno scontro istituzionale che avrebbe potuto avere esiti devastanti. Infatti, piaccia o non piaccia, gli elettori sono convinti di aver nominato con il loro voto il Capo del Governo, mentre la Costituzione affida questo compito al Presidente delle Repubblica e alla successiva ratifica parlamentare. È evidente il pasticcio pericoloso nel quale è stato trascinato il Paese dagli improvvisati riformatori che hanno smantellato allegramente il sistema della Prima repubblica senza sostituirlo con regole chiare e certe.
Ciò di cui siamo certi è che questa situazione non potrà protrarsi ancora a lungo. Viviamo in una sorta di terra di nessuno della quale non si intuiscono i confini e viviamo alla giornata nella speranza che non accada il peggio. Per anni ci siamo baloccati tra primo e secondo turno, tra repubblica presidenziale e cancellierato, tra preferenze e liste bloccate. Ora, davvero, non ci sono più margini. O si ha il coraggio di fare due passi indietro ripristinando ciò che è stato maldestramente abolito o di farne uno in avanti chiudendo il cerchio e definendo una volta per tutte l’assetto della nostra Repubblica.
La seconda bomba pronta a far esplodere la Repubblica è quella del debito pubblico, del quale si parla ormai da anni come di un parente con una malattia cronica con la quale si può tutto sommato convivere. E invece anche in questo caso il tempo è finito. Nei mesi scorsi la Cancelliera tedesca Angela Merkel ci ha brutalmente ricordato che i debiti pubblici degli Stati altro non sono che debiti dei privati i quali, volenti o nolenti, prima o poi, saranno chiamati a risponderne. La signora Merkel ha rotto un tabù dietro il quale ci siamo rifugiati per molti anni e ci ha spiegato che questo debito, in un modo o nell’altro, dovrà rientrare nel bilancio delle nostre famiglie. Non serve a niente continuare a ripetere che il debito è stato creato dalla Prima repubblica a causa della spesa. La spesa pubblica ha continuato a lievitare anche in questi anni ma non ha prodotto nessuna crescita. Con la Prima repubblica cresceva il debito ma c’era sviluppo. Da più di diciassette anni continua a crescere il debito e non c’è sviluppo.
Proprio su questo terreno, la politica dovrà dimostrare di essere all’altezza del compito e di saper raccontare la verità agli italiani, anche quella più dolorosa. Ma deve essere chiaro che non sarà possibile scaricare direttamente sulle famiglie italiane una parte del debito pubblico senza aver prima eliminato gli sprechi a danno delle finanze pubbliche e ridotto drasticamente i costi, diretti e indiretti, della politica.
Gli italiani potrebbero essere anche disposti a sopportare una stagione di sacrifici, ma chiedono in cambio serietà, correttezza e trasparenza.
La prima necessità è oggi quella di far uscire la politica dalle trincee dentro le quali si è rifugiata e di affrontare il peso e la sfida della riflessione e del confronto. Si sta affacciando alla ribalta politica l’ipotesi di un Terzo polo, ma questo potrà avere un senso ed uno spazio solo se riuscirà a rimettere in discussione gli equilibri complessivi e le attuali regole del gioco.
Sino ad oggi – conclude Fara – gli opposti schieramenti si sono strutturati solo per combattersi con la propaganda. Ma alla democrazia non servono le trincee e neppure i campi di battaglia: sono invece utili e necessari i terreni di confronto e di mediazione. Agli anatemi e alle invettive bisogna sostituire le idee e i progetti. Noi pensiamo che ciò possa accadere: la storia tormentata del nostro Paese ci ha insegnato che gli italiani riescono a trovare, nei momenti più difficili, le energie e le risorse necessarie per rialzarsi e ripartire.
Quando in auto si imbocca un tunnel del quale, a causa della curvatura del suo tracciato, non si vede l’uscita, calcolano gli ingegneri che istintivamente il guidatore riduca la velocità di almeno il 30%. Rallentiamo perché non vediamo il portale dell’uscita. Ma l’uscita c’è. Bisogna avere il coraggio di superare la curva e il portale d’uscita, per lontano che sia, apparirà.».
Queste alcune delle indicazioni che emergono dal Rapporto Italia 2011. Il Rapporto, alla sua 23a edizione, è stato costruito, attorno a sei dicotomie, illustrate attraverso altrettanti saggi accompagnati da sessanta schede fenomenologiche. Le dicotomie tematiche individuate per il Rapporto Italia 2011 sono:
L’indagine condotta quest’anno ha toccato le tematiche e i fenomeni correlati a ciascuna delle sezioni che compongono il Rapporto i quali hanno stimolato nel corso degli ultimi mesi, e non solo, il dibattito e l’interesse dell’opinione pubblica. In particolare, hanno partecipato e contribuito a delineare il quadro degli orientamenti presenti nella compagine della nostra società ben 1.532 cittadini. La rilevazione è stata effettuata nel periodo tra il 20 dicembre 2010 e il 12 gennaio 2011.
SSN: soddisfatto solo il 35,8% degli italiani. Il livello di soddisfazione che gli italiani esprimono nei confronti dei servizi offerti dal nostro Sistema sanitario risulta scarso, considerando che a rispondere di essere poco soddisfatto è il 44,3% del campione e che il 17,1% dichiara di non esserlo affatto (il parere negativo si attesta dunque complessivamente al 61,4%). Il grado di soddisfazione si attesta invece al 35,8% (31,9% abbastanza e 3,9% molto soddisfatto). Rispetto all’anno appena trascorso il livello di insoddisfazione dei cittadini è cresciuto, si dice infatti per nulla e poco soddisfatto il 4,3% e lo 0,8% in più di persone (che fa registrare un +5,1% in un anno tra le fila degli scontenti), mentre al contrario si assottiglia la percentuale di quanti si dicono abbastanza e molto soddisfatti, comportando un -5,3% nel primo caso e un -0,6% nel secondo, che fa diminuire il livello di soddisfazione del 5,9% rispetto allo scorso anno. Maggiore soddisfazione per il nostro sistema sanitario si registra nel Centro (41,3%), seguito da Nord-Ovest (39,1%), Nord-Est (38,6%), Isole (26,4%) e Sud (26,3%). esprimono malcontento il 71,2% degli abitanti delle Isole, il 70,7% del Sud, il 58,5% del Nord-Est, il 58,2% del Nord-Ovest e il 55,6% del Centro.
L’assistenza ospedaliera peggiora. In merito all’assistenza ospedaliera si reputa poco e affatto soddisfatto il 40,9% e il 15,1% dei cittadini (per un totale del 56%), contro il 37,2% e il 4,8% di chi si dice abbastanza e molto soddisfatto (per un totale del 42%). Il confronto con l’anno 2010 mostra un aumento del grado di insoddisfazione dell’8,1% e una diminuzione del 6,6% circa.
Tempi di attesa intollerabili. Coloro che si ritengono abbastanza soddisfatti dei tempi di attesa necessari a risolvere i loro bisogni ospedalieri sono il 12,5%, cui si aggiunge un 5,4% di quanti dichiarano di essere estremamente soddisfatti, per un totale di pareri positivi che si attesta a quota 17,9%. A lamentare una totale insoddisfazione è invece il 44,9% degli intervistati, seguiti da un 34,5% che si dice essere poco soddisfatto, facendo registrare un totale che sfiora i quattro quinti degli italiani (79,4%). Considerando che la situazione disegnata nel 2010 esprimeva già delle condizioni pessime (il 74,5% si era detto insoddisfatto contro il 21,3% che svelava il contrario), il peggioramento registrato fa segnare un +4,9% tra coloro che criticano l’eccessiva lunghezza dei tempi di attesa all’interno degli ospedali presenti sul territorio e un -3,4% tra quanti invece non esprimono lamentele al riguardo.
Strutture ospedaliere: carenti per due terzi dei cittadini. La qualità delle strutture ospedaliere risulta insufficiente per i due terzi del campione: non si ritiene infatti soddisfatto il 66,1% (45,3% poco, 20,8% per niente) contro il 31,8% che esprime gradimento (29,6% abbastanza, 2,2% molto). Rispetto al 2010 il sentimento di apprezzamento sui requisiti che un ospedale dovrebbe avere passa dal 39,2% al 31,8% (-7,4%), quello di insoddisfazione cresce dell’8,5% (dal 57,6% del 2010 al 66,1%).
Nonostante la carenza di strutture e servizi, largamente apprezzata la competenza di medici e infermieri. L’opinione sulla competenza del personale medico fa registrare il primo dato positivo: sono infatti il 64,2% i cittadini che si dichiarano abbastanza (52,1%) e molto (12,1%) soddisfatti della preparazione dei medici, valore che tuttavia si attestava nel 2010 al 71,6%, facendo registrare un calo del 7,4%. I critici sono invece il 33% che, se messi a paragone con lo scorso anno (24,8%), mostrano come il dato sia cresciuto. Un altro dato positivo riguarda la valutazione relativa alla professionalità del personale infermieristico: il 60,2% esprime infatti gradimento verso la categoria e il suo operato, contro il 37,5% di quanti si dicono insoddisfatti. Rispetto all’anno passato la situazione è stabile: è diminuito il gradimento soltanto dello 0,2% ed è aumentato il malcontento dell’1,3%.
Ticket troppo esosi per 6 cittadini su 10. Anche per quanto riguarda il costo dei ticket, rispetto al 2010, cresce del 5,2% il malcontento e diminuisce del 5,4% la percentuale di pareri positivi. Nel 2011, infatti, l’insoddisfazione raccoglie il 60,3% delle indicazioni, contro il 33,7% di chi ritiene tutto sommato questo costo equo. In linea con i risultati ottenuti sulla rilevazione del 2010, interrogati sulla responsabilità dei casi di malasanità avvenuti all’interno di alcuni ospedali pubblici italiani, il 18,4% ne fa risalire la causa alle carenze strutturali degli ospedali pubblici, quali il mancato rispetto delle norme igieniche e il sovraffollamento, il 14,5% sostiene che il problema principale sia costituito dai medici, il 12,5% imputa la responsabilità ai tagli alla sanità, il 3,9% ritiene che i colpevoli siano gli infermieri, mentre la maggior parte, il 47%, sostiene che a dar vita ai casi di malasanità sia l’insieme congiunto dei fattori citati. Quel 10,7% che segna la distanza tra la risposta “all’insieme di tutti questi fattori” nel 2010 e nel 2011 si distribuisce, nei risultati di quest’anno, in maniera abbastanza equa tra tutte le altre possibilità di risposta fornite dagli intervistati.
Per cure o interventi gli ospedali pubblici, ma cresce il gradimento per i privati. Per usufruire di cure specialistiche o affrontare interventi chirurgici, gli italiani preferiscono affidarsi, nel 41,4% dei casi, alle strutture ospedaliere pubbliche, mentre si attestano su livelli simili coloro che preferiscono rivolgersi agli ospedali privati (26,1%) e quanti invece, pur volendo optare per i privati, che rappresentano la loro prima scelta, sono costretti a ripiegare sul servizio pubblico a causa dei costi troppo elevati (24,2%). Questa categoria è aumentata del 3,8% rispetto all’anno precedente, così come chi predilige le cure e i servizi erogati dalle cliniche private ha fatto registrare un aumento del 3,3%. In drastico calo rispetto al 2010 invece (-10,1%) le preferenze accordate alle strutture sanitarie pubbliche.
In estrema sintesi. Il livello di insoddisfazione generale è molto alto e coinvolge più del 60% (61,4%) della popolazione, con picchi negativi che superano il 70% nel Meridione. Le lamentele maggiori riguardano i tempi di attesa negli ospedali (79,4%), seguiti dalla scarsa qualità delle strutture ospedaliere (66,1%), il costo del ticket (60,3%) e l’assistenza ospedaliera (56%). Una lancia viene spezzata solamente quando ad essere chiamata in causa è la professionalità degli addetti ai lavori, medici e infermieri, che fanno registrare rispettivamente un indice di gradimento che si attesta a quota 64,2% per i primi e 60,2% per i secondi.
A proposito dei casi di malasanità che interessano alcuni ospedali, ad essere tirati in ballo sono per quasi la metà del campione (47%) un insieme di fattori, dalle norme igieniche al sovraffollamento, dai medici ai tagli alla sanità, agli infermieri. E a conferma della scarsa fiducia accordata agli ospedali italiani diminuisce del 10,1% rispetto al 2010 la preferenza accordata alle strutture pubbliche piuttosto che alle cliniche private.
Eutanasia: si sta innescando un’inversione di tendenza? I due terzi del campione intervistato (66,2%) si dice favorevole alla pratica dell’eutanasia, facendo registrare un -1,2% rispetto al 2010, in cui era il 67,4% a schierarsi in favore della pratica, un -1,8% rispetto ai dati raccolti nel 2007 (68%) e un +6,7% rispetto al 2004. Rispetto al 2010 aumenta nel 2011 la quota dei contrari passando dal 21,7% al 24,2%. Allo stesso tempo diminuiscono gli indecisi (dal 10,9% al 9,6%). A rispondere di essere favorevole alla possibilità di concludere la vita di un’altra persona, dietro sua richiesta, ricorrendo alla pratica dell’eutanasia è il 67,9% degli uomini, contro il 64,6% delle donne, mentre, invece, queste ultime si dicono contrarie nel 26% dei casi, contro il 22,3% degli uomini che fanno la stessa dichiarazione (con una differenza del 3,7%). Tra i favorevoli all’eutanasia il 75,3% appartiene alla classe d’età dei 18-24enni, il 70,9% a chi ha un’età compresa tra i 25 e i 34 anni, il 67,5% agli adulti che hanno un’età che va dai 35 ai 44 anni, il 67,7% ai 45-64enni e il 53,7% a chi ha 65 anni e oltre. L’appartenenza politica fa registrare un picco dell’82% di favorevoli alla pratica della “buona morte” a sinistra e soltanto l’11,7% dei contrari. Chi non si riconosce in alcuna posizione politica afferma di essere d’accordo per il 69,6% e contrario per il 19,4%. I votanti di destra fanno registrare un 66% a favore e un 27,7% contro l’eutanasia. Tra i militanti del centro-sinistra il 63,1% si dice favorevole e il 26,7% contrario. Nelle fila del centro ritroviamo un 57,9% di favorevoli e un 31,6% di contrari e infine tra coloro che si riconoscono nel centro-destra, il 54,5% dichiara la propria aderenza allo spirito che si cela dietro la pratica e il 37,2% si tiene invece su posizioni opposte.
Il 48,6% degli italiani pensa che l’eutanasia venga praticata ugualmente negli ospedali. Mentre nel 2007 di fronte alla domanda “secondo lei negli ospedali pubblici viene praticata di nascosto l’eutanasia per i casi irrisolvibili anche se la legge non lo consente?” quasi la metà del campione (47,3%) non riusciva a dare una risposta netta a favore del sì o del no, con il passare degli anni i dubbi vanno diminuendo, interessando il 25,4% degli intervistati nel 2010 e il 21,4% nel 2011. Se nel 2007 a rispondere “sì” è stato il 26,3% degli italiani, nel 2010 tale percentuale è salita al 45,2% (+18,9%) e ancora al 48,6% nell’anno in corso (+22,3% rispetto al 2004 e +3,4% rispetto al 2010). Minori variazioni ha subìto invece la percentuale di quanti ritengono che non venga praticata in sordina all’interno delle strutture ospedaliere pubbliche: erano il 26,4% nel 2004, il 29,4% nel 2010 e sono oggi il 30%. Nonostante l’opinione diffusa che l’eutanasia venga praticata illegalmente negli ospedali, la maggior parte degli intervistati afferma di non essere mai venuti a conoscenza di episodi di eutanasia praticata di nascosto da parte di familiari, amici o conoscenti: essi rappresentavano l’87,4% nel 2007, il 91,4% nel 2010 (+5%) e l’82,4% nel 2011. Al contrario, il 5,9% nel 2007, il 7,7% nel 2010 e il 7,4% di quest’anno hanno risposto affermativamente.
Testamento biologico: la libertà di scegliere. A proposito di una legge che istituisca in Italia il testamento biologico, già nel 2007 si diceva favorevole il 74,7% degli italiani (contro il 15% dei contrari), diventati l’81,4% nel 2010 (contro il 10,9% dei non favorevoli). I dati di quest’anno dimostrano però un’inversione di tendenza, dal momento che rispetto all’anno precedente coloro che si dicono favorevoli al testamento biologico sono diventati il 77,2%, facendo registrare un calo del 4,2%, mentre sono aumentati al 14,2%, il 3,3% in più nel giro di un anno, coloro che si schierano contro la sua istituzione a mezzo di un’apposita legge. La maggior parte di coloro che sono favorevoli al testamento biologico appartiene alla sinistra (87,5% contro il 7,8% dei contrari), seguiti da chi non ha alcuna appartenenza politica (80,1%), da quanti si riconoscono nei valori del centro-destra (76%), del centro-sinistra (75,6%) e del centro (64,9%). Nel caso fosse introdotto il testamento biologico, secondo l’opinione del 72,8% degli italiani, il medico non potrebbe ignorare la volontà in esso espressa, solo il 14,8% (13,9% nel 2010) ritiene invece che il medico potrebbe agire in maniera difforme dalla richiesta espressa dal paziente. Ad avere dato una risposta negativa è stato il 74,5% degli intervistati nel 2010, diventati il 72,8% nel 2011 (-1,7%), mentre a rispondere affermativamente è stato il 13,9% nel 2010, diventato il 14,8% nel 2011 (0,9%).
Fonte: Eurispes