Ognuno di noi almeno una volta nella sua vita ha provato "dolore" o "sofferenza" per sè o per gli altri, la rete è una delle fonti più ricche in merito a questo tema, infatti su di essa è possibile trovare molti racconti o appelli.
Il Laborcare pertanto vuole stimolare i suoi lettori verso una riflessione sul dolore, riportando due racconti trovati, appunto sulla rete, sul sito www.nottidiguardia.it
SEI TU
Ho guardato nel profondo dei tuoi occhi cercando di comprenderti ma, ho visto tutto quello che di me mai avrei voluto vedere. Ho visto la mia fragilità e la mia insicurezza, i miei sensi di colpa e i miei complessi, le mie paure e la mia insofferenza, ho visto le mie tenebre e i miei demoni…
E’ stato un vortice di emozioni quella notte, quella settimana, quel periodo… mi sono trovata cresciuta di colpo, come donna, come medico.
Tu stavi male, peggioravi di ora in ora, quasi di minuto in minuto ed io mi districavo tra i fili del saturimetro, quelli del monitor, le flebo legate all’asta dell’armadio, il fonendo che non trovavo mai ed avevo sempre al collo, la diuresi, i cambi di terapia, in una folle gara contro la morte. Ma io sono quella che fa diagnosi appena il paziente entra in ambulatorio, io la regina degli edemi polmonari, non potevo non salvarti, non tu. Ti cambiavo le flebo compulsivamente, ti rivalutavo con una frequenza fuori da ogni logica, io dovevo… lo dovevo a te e lo dovevo al mio ego, perché dovevo dimostrare a me stessa che, a dispetto di tutto e tutti, ce l’avrei fatta anche questa volta… ma non ci riuscivo, e mi sentivo piccina piccina, ero lì non potevo fare più niente, niente bastava, rincorrevo la morte senza mai raggiungerla, mi sembrava per un momento di averla afferrata per il mantello ma subito si dissolveva e le mie mani erano di nuovo vuote, inconsistenti. E tu eri una candela in balia di un vento troppo forte e io non ti riparavo, non riuscivo a evitare il tuo declino, l’innescarsi di una cascata ormai inesorabile. Mi prendevano in giro, tutte le volte che ti ho momentaneamente ripreso “Elena batte Gesù Cristo 2-0″ mi dicevano, la sicurezza tornava e con essa una nuova speranza, ma anche se avevo vinto qualche battaglia, la guerra era un’altra cosa, nel mio profondo sapevo che non avrei vinto. Allora mi sono sentita inadeguata come per la maggior parte della mia vita, ho provato quell’orribile sensazione di non essere mai abbastanza. Poi ho capito, ho mollato, avevamo perso. Quindi la decisione di aiutarti nel percorso, l’ultima dimostrazione del bene di chi era lì quella notte, della mia stima ed affetto infiniti. Tu mi hai preso le mani, come facevi sempre, me le tenevi a lungo tra le tue, quelle mani così belle, da scultura, che ho potuto amare nuovamente, e mi hai guardato dritto negli occhi, con le tue iridi azzurre e mentre io mi perdevo nel mare della tua sconfinata consapevolezza, tu mi hai detto “Elena, io mi fido di te”. E in quel momento io ho fatto i conti con la mia impotenza, con la mia inesperienza, con la mia presunzione, la mia inadeguatezza umana e professionale, con il mio essere un medico giovane e una donna insicura, con la mia prima vera sconfitta, con la responsabilità del gesto, con il vuoto che avresti lasciato. Tu morivi e io sono morta con te, in quel momento, per rinascere una donna nuova, un medico nuovo, una donna migliore, un medico che si dovrà sempre migliorare.
…allora ho guardato ancora oltre e nel profondo del mio cuore, un mare in tempesta, un oceano immenso dove tuffarsi e perdersi e lì nel profondo della mia anima ho compreso!
Shadow - Giugno 25, 2010
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LA SOGLIA DEL DOLORE
“Voi uomini avete una soglia di sopportazione del dolore così bassa che se sbattete il gomito contro uno spigolo non sentite la scossa, cadete fulminati. Poi si lamentano se noi facciamo l’epidurale per partorire e loro farebbero l’anestesia anche per farsi la barba. ” da: le più belle frasi di Luciana Littizzetto.
Ho riletto già un paio di volte questa frase che campeggia nel mezzo della mia pagina di Facebook e mentre la guardo ancora sento che mi monta dentro un’ondata di rabbia.
Mi ha mandato questa riflessione una povera di spirito che per disgrazia ho accettato fra i miei amici: già non la sopportavo al liceo, e risentendola tanti anni dopo ho avuto un’ulteriore conferma del fatto che le persone non migliorano col tempo come il vino: possono solo peggiorare. Figurarsi, ha messo come foto iniziale del profilo un’immagine in bikini palesemente di almeno dieci anni fa in posa da strafiga, e continua a postare come perle di saggezza aforismi che scarterebbero anche per i Baci Perugina.
Ma questa qui no, non la reggo proprio. Non è perché anche oggi ho visitato l’ennesima fibromialgica che, quando le ho appoggiato un dito sotto la scapola, si è contorta ed ha urlato come se l’avessi trafitta con un kriss malese. Poverette, oramai le capisco, le mie fibromialgiche, e le tratto anche abbastanza bene, con adeguate parole di conforto. Non è colpa loro, è che le disegnano così, come Jessica Rabbit.
No, quello che mi rende insopportabili queste parole è che oggi sono andato in camera mortuaria a dare l’ ultimo saluto a Roberto.
Roberto era un collega con cui ho percorso praticamente tutti questi anni di lavoro, anzi, uno dei pochi che oltre che collega potevo definire anche un amico. Abbiamo iniziato insieme con le prime guardie mediche sul territorio, siamo stati assunti praticamente insieme in questo ospedale, per un po’ abbiamo lavorato insieme nello stesso reparto.
Quindi una riorganizzazione interna lo ha “convinto” a passare ad un rapporto di collaborazione libero-professionale, a cui si è adattato inizialmente con un po’ di frustrazione, poi con un impegno ed una professionalità che lo hanno portato ad essere uno dei più stimati e richiesti specialisti del circondario.
Era uno di quei medici che teneva a darsi un tono e ad avere un’immagine consona al suo ruolo, sempre in cravatta tono-su-tono con la camicia, d’inverno con il panama leggermente inclinato, e la sua naturale eleganza strideva un po’ con i miei pantaloni stazzonati e le mie magliette da 7 euro al supermercato. Ma si capiva che il suo atteggiamento non era un volersela tirare, ma una forma di rispetto verso i suoi pazienti che “volevano” vederlo così.
Poi, alcuni anni fa, le prime avvisaglie; difficoltà a respirare in certi momenti, alla sera sempre più spesso un po’ di febbricola.
L’iniziale atteggiamento da struzzo di tutti noi che lavoriamo in sanità (cosa vuoi che sia, passerà da solo); quindi i primi accertamenti, con risultati interlocutori. Si sa, curare un collega non è mai semplice, così di fronte ad un esame negativo o dubbio di solito il consiglio è spesso di rivolgersi ad un altro specialista “sicuramente più pertinente al tuo caso”.
Così di controllo in controllo, lo vedevo sempre più stanco e preoccupato. Mi aveva confessato che per tenere sotto controllo la febbre e attenuare la sensazione di spossatezza aveva cominciato ad assumere regolarmente del cortisone. Poi, finalmente, all’ ennesimo controllo la diagnosi: una forma leucemica rara, “una di quelle classiche cose da una su un milione che capitano solo ai medici”, disse l’ematologo con grande tatto e sensibilità.
Iniziò così il solito calvario; i cicli di chemio, accertamenti sempre più serrati ed invasivi, la nausea, i capelli persi, la faccia gonfia per i farmaci, il colorito sempre più pallido.
Ciò nonostante continuava sempre il suo lavoro, con l’ attenzione e la cura di sempre: la mattina andava a fare la chemioterapia, il pomeriggio veniva da noi a svolgere il suo ambulatorio, non prima di essersi fatto sparare in vena uno Zofran ed un desametazone.
In ultimo portava un busto, perché le vertebre rese sempre più fragili dai cortisonici avevano cominciato a cedere. Vedevo il dolore che gli costava ogni movimento, ed era una sofferenza anche per me. Una volta, capendo quello che stavo pensando, mi disse:” Ho dei figli piccoli, è importante che non pensino che mi sto arrendendo”.
In questi anni mi è capitato di perdere diversi colleghi. Alcuni, dopo essersi ammalati, sono semplicemente spariti, come i vecchi eschimesi, che quando sentono prossima la fine si allontanano dal villaggio e si perdono nel bianco.
Roberto no, quando non ce l’ha più fatta si è ricoverato da noi, anche perché i luminari che l’avevano assistito e che fino a poco tempo prima gli avevano garantito che era sulla soglia della remissione vedendo la situazione precipitare si erano improvvisamente tirati indietro.
Così siamo stati costretti a seguire il suo declino, e abbiamo potuto ammirare la dignità con cui lo sopportava.
Quando infine lo abbiamo trasferito ad una struttura “sicuramente più pertinente al suo caso”, lo sono andato a salutare mentre gli ambulanzieri lo portavano via.
“Cerca di tornare presto”, gli dissi, e sapevo che non sarebbe tornato.
“Vedrò di non deluderti”, rispose con un debole sorriso, e dal suo sguardo capii che lo sapeva anche lui.
Ecco, stamattina lo sono andato a salutare per l’ ultima volta alla camera mortuaria. Ai familiari non ho potuto dire altro che in casi come questo mi sento inadeguato come medico e come uomo.
Inadeguato. Non mi viene nessuna altra parola.
“Voi uomini avete una soglia di sopportazione del dolore così bassa…”
Sotto alla scritta occhieggia, invitante, il link “commenta”.
Che dite, se la mando affanculo e la cancello dai miei amici di Facebook sono troppo cattivo?
Morris - Maggio 31, 2010