Sulle pagine de La Repubblica Concita De Gregorio trascrive nella sua rubrica "Invece Concita. Il luogo delle vostre storie" alcuni passaggi della lettera ricevuta da un medico di Busto Arsizio, Federica Pozzi, che parla di cure di fine vita, in un momento in cui, nel nostro paese, questo tema risulta essere sempre più predominante.
Pertanto pubblichiamo di seguito l'articolo di Concita De Gregorio insieme alle parole di Federica Pozzi.
Sul tema del fine vita, della dignità e della cura, qualche giorno dopo che l’ennesima discussione parlamentare è andata deserta, scrive da Busto Arsizio Federica Pozzi: medico, mamma di due bimbi, 36 anni. “Sei li ho spesi nel Sud del mondo, con la mia famiglia, fra Africa ed Haiti – mi dice mentre commentiamo la sua lettera - da due anni sono di nuovo qui in Italia e mi occupo di fine vita, cure palliative. Ho scritto quello che vedo, dalle mie stanze d’ospedale”. Parla di ‘cura’ parola bella e poco abitata. Trascrivo qualche passaggio della sua lettera.
“Non voglio entrare in dibattiti etici, politici, religiosi: non ne ho (ancora) la competenza. Ma ho un’esperienza e da questa voglio partire. Voglio partire dalla cura, di cui non ho sentito parlare sui giornali o in tv in questi giorni. Un’azione verso l’altro: avere cura, prendersi cura di. E’ ben diversa dalla guarigione: si applica indistintamente a chi ha una condizione di fragilità. Nessuno è incurabile, nemmeno chi è inguaribile. Questo l’ho imparato soprattutto laddove la guarigione è meno frequente, dove i mezzi e le competenze scarseggiano. In quei paesi in ospedale devi avere accanto qualcuno che si prenda cura di te. In Uganda li chiamano attendant , ad Haiti garde de malade, il concetto è quello della guardia, della veglia, della presenza".
"Poi torni qui, in un mondo dove la medicina può quasi tutto e ci si può anche permettere di parlare di dignità. Il diritto a una morte degna. Mi chiedo perché ci fa così tanta paura. Cosa rappresenta per noi, in questa società così evoluta, la dignità? Degno in latino è qualcosa che merita rispetto, fa parte della famiglia da cui nasce la parola decoro. Ma a me piace di più pensarla in greco la dignità: si esprime con l’aggettivo axios (ἄξιος), da cui deriva assioma. La dignità come una verità evidente, che prescinde da dimostrazioni. Axios però è anche una misura di peso, vuol dire “pesa tanto quanto”: come a dire che la dignità cresce con il suo peso. Ecco cosa ci fa paura, il peso. Ecco perché l’aula di Montecitorio resta vuota di fronte al fine vita”.
“Vogliamo costruire una società leggera, dinamica, vincente dove quel che non funziona si aggiusta, se non si aggiusta si cambia. E se non si può cambiare si rinuncia. Siamo la società che al compromesso preferisce lo scarto, al bene preferisce il meglio. Ma restiamo umani e i nostri limiti ci aspettano, ci capitano. Credo profondamente che nella risposta che siamo in grado di dare a questi limiti, si misuri il valore della nostra umanità. Io non lo so davvero cosa farei, vorrei, sceglierei se mi trovassi in una qualunque situazione di fragilità di vita. Vorrei però che le persone che mi circondano riconoscessero il peso della mia dignità. Perché fra avere un peso e sentirsi un peso, il confine è troppo sottile".
"Vorrei che non facesse paura un corpo che non funziona, una malattia che non guarisce, una testa che non ragiona. Vorrei che lo scarto non fosse l’unica possibilità che una società pensante possa concepire. Vorrei che la persona restasse tale, indipendentemente dal suo corpo, perché per sonat, suona attraverso ed è di questo suono che è fatta la dignità. Vorrei vedere quell’aula di Parlamento piena. E che si lottasse anche per la cura, soprattutto per la cura. Oggi, anzi subito”.