Riportiamo qui l'articolo di Maurizio Mori (Presidente della Consulta di Bioetica, Prof. di Bioetica all'Università di Torino)
pubblicato su "L'Unità" di venerdì 24 ottobre 2008.
"Un tempo i cattolici condannavano senza mezzi termini i miscredenti. Ad esempio, Pio IX bollava come “delirio” la pretesa di considerare un diritto la libertà di coscienza e di culto ed esortava i fedeli affinché «avessero in sommo abominio l’infezione di una peste così crudele e la fuggissero».
Quello stile si è rivelato controproducente. Hanno così cambiato strategia e oggi rinunciano alle condanne per passare invece alla “comprensione” della persona che sbaglia, dell’errante.
Esemplare al riguardo è stato un editoriale uscito qualche tempo fa (Avvenire, 1 ottobre) di Francesco D’Agostino che spiegava come mai gli fosse difficile discutere con Beppino Englaro sul “caso Eluana”. Englaro, osservava D’Agostino, è un interlocutore valido, ed «è uomo garbato, di intense e radicate convinzioni, che ha dedicato con sincerità e con un ammirevole senso della misura una parte ormai davvero ampia della sua vita ad una sola causa», insomma una brava, un’ottima, persona. Perché, allora, se è un «testimone autentico», l’imbarazzo a discutere e ragionare con lui?
Perché D’Agostino ritiene che Englaro «sia un uomo da compiangere (nel senso etimologico del termine: vorrei piangere assieme a lui il tristissimo destino di Eluana), che sia un uomo da compatire (nel senso etimologico del termine: dovremmo tutti patire assieme a lui, come assieme ad un fratello, a causa della vicenda che ha sconvolto la vita di Eluana e la sua)». E non si può ragionare e discutere di un problema serio come quello di Eluana con un uomo che «merita in primo luogo di essere “compianto” e “compatito”».
Questo modo di fare, mostra il livello raggiunto dai cattolici nostrani nel dibattito bioetico: dietro una patina di gentilezza mascherano il disprezzo degli altri.
La comprensione che mostrano sul piano personale serve solo come arma per squalificare l’interlocutore: Englaro è da “comprendere” per la tragedia che lo ha colpito e che lo avrebbe sconvolto al punto da non essere più in grado di ragionare. Il dolore lo avrebbe distrutto, e per questo va “compianto” e “compatito”, non preso sul serio e condannato.
Qui sta la totale mancanza di rispetto verso Englaro, che invece è uomo forte e lucido, dalle solide convinzioni: può essere criticato e condannato per le sue idee, ma non squalificato con una pacca sulla spalla.
Secondo D’Agostino non si può ragionare e argomentare con Englaro perché Beppino ti sbatte in faccia con esuberante passione la situazione concreta e reale di Eluana, mentre la razionalità richiesta dal ragionamento porta a riconoscere che una legge non può essere emanata «per risolvere nell’immediato singoli casi umani, per quanto emotivamente conturbanti: essa deve mirare ad un orizzonte ben più ampio di quello dell’immediatezza».
Così D’Agostino ci insegna che già Aristotele tanti secoli fa ci «ha spiegato in modo definitivo e insuperabile» che «una “buona” legge è “ragione senza passione”». Si potrebbe osservare che la tesi di Aristotele è controversa e molti ritengono che le leggi vadano fondate su “passioni buone”. Ma questo è un dettaglio marginale.
È sicuramente vero che le leggi sono generali e ampie, non ad personam e limitate al caso specifico. Ma è altrettanto vero che devono poi risolvere il caso concreto, perché altrimenti sarebbero inutili astrazioni. Pertanto, è corretto partire dal caso concreto di Eluana e poi passare con “ragione senza passione” agli altri casi simili.
Come risolverebbe D’Agostino lo specifico caso Eluana? Non lo dice. Si limita però a dire che «il cuore della questione (di Eluana, ndr) e di ogni possibile legge sulla “fine vita”, che si voglia “giusta”» sta nell’osservare che il “caso Eluana” non coinvolge solo lei, ma coinvolge «innumerevoli malati ... attuali e futuri, il cui diritto alla vita è messo in pericolo e che noi dobbiamo garantire contro ogni rischio di abbandono terapeutico».
Sembra di capire che per D’Agostino la posizione passionale di Beppino per il suo caso singolo non è sbagliata in sé: se fosse sbagliata, andrebbe condannato, non “capito” e “compreso”. Sembra che D’Agostino accetti che, dopo quasi 17 anni è certo che Eluana non si risveglierà mai più. È per questo che non condanna Beppino. Il punto, quindi, è che la “ragione senza passione” ci deve far considerare gli altri «innumerevoli malati ... che dobbiamo garantire contro ogni rischio di abbandono terapeutico». Ma perché dice questo? È lapalissiano che nel caso di Eluana non c’è alcun “abbandono terapeutico”: è stata accudita in modo esemplare per più di 16 anni. Se già nel caso singolo di Eluana ci fossero violazioni, D’Agostino avrebbe dovuto dirlo subito, rendendo del tutto inutile e superfluo l’appello alla tesi aristotelica della “ragione senza passione”.Se, quindi, nel caso singolo è lecita la sospensione della terapia, la “ragione senza passione” ci dice che in tutti i casi simili è giusto lo stesso trattamento.
L’argomento di D’Agostino è in realtà invalido. L’errore sta nel fatto che l’intensa passione che lo anima gli impedisce di immaginare che i casi come quelli di Eluana abbiano soluzione analoga: il solo pensiero “fa accapponare la pelle”, “sconvolge”, “atterrisce” e via dicendo con espressioni analoghe che confermano come sia la passione ad impedire alla ragione di estrinsecarsi.
Diversamente da quanto lui propone di fare con Beppino, non credo che per questa sua irruente passionalità D’Agostino sia da “compatire” e da “compiangere”. Lo si deve invece prendere sul serio per la posizione sostenuta, ma si deve anche far notare che, al di là delle citazioni dotte, il ragionamento di D’Agostino è fallace e trasmette solo stimoli “puramente emotivi”: i suoi.
Alla fine del suo editoriale D’Agostino auspica, «a bassissima voce», che il signor Englaro fuoriesca «dal sistema mediatico nel quale si trova immerso da anni» perché la sua è sì una «testimonianza autentica, che merita rispetto», ma è «testimonianza di “passione”, non di “ragione”». Anche qui, diversamente da quanto fa D’Agostino, non auspico niente perché non è mio compito e la mia voce è tanto bassa da risultare impercettibile.
Resta però che anche quella di D’Agostino è «testimonianza di “passione” e non di “ragione”». Il fatto che D’Agostino occupi posizioni istituzionali importanti non cambia la situazione. Anzi, la aggrava. Perché da questa posizione di forza, le sue emozioni ammantate da ragionamenti fallaci influenzano la vita civile producendo disastri.