Affrontare il tema della morte è un’impresa molto difficile per la società odierna; la “gigantesca illusione” di eliminare, nascondere tutto quanto c’è di negativo, come la sofferenza, il dolore, lo stesso invecchiamento e un’infantile attenzione alle presunte “meraviglie” della tecnologia e della medicina, rendono l’argomento morte un vero e proprio tabù paragonabile alla pornografia. (“The pornography of death, Gorer 1955).
La nascita e la morte, eventi paragonabili, riservati esclusivamente a pochi intimi, caratterizzati entrambe da estrema solitudine. A differenza delle società arcaiche, quindi, la società moderna partecipa al lutto in maniera più intima e meno solidale soprattutto da parte dell’intera comunità; si relega la morte all’interno di stanze di ospedale, Case di Cura e hospice in modo da “proteggersi” e non vedere ciò che è comune ad ogni essere umano. Ma c’è una figura che da sempre accompagna la sofferenza dell’uomo nell’evoluzione finale della propria esistenza, sostiene i familiari e li accompagna ad una piena elaborazione della perdita e del lutto: l’Infermiere.
Sicuramente il progresso e i nuovi e sempre più avanzati sviluppi della medicina hanno portato un beneficio per l’intera comunità; dalla seconda metà degli anni ’50 con la nascita dei primi rudimentali Reparti di Rianimazione nacquero però domande e dubbi etici e morali che ancora oggi fanno parte del nostro essere infermieri ed esseri umani. Uno sviluppo che ha visto nuovi metodi anche per l’accertamento di morte stessa; oggi si parla, ad esempio, di “morte cerebrale”, evento di cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo per le quali è concesso sospendere le cure di sostegno vitale senza intercorrere nell’eutanasia.
Ma tutta la tecnologia delle nostre Terapie Intensive, rappresenta sempre un beneficio per la persona? Strategie diagnostiche terapeutiche che hanno portato sempre di più ad un controllo sulla “quantità” della vita senza valutarne la “qualità” futura, sono sempre positive? E la volontà della persona ? Chi decide “come” e soprattutto “quando”? Quando, scegliere tra il FARE e il NON FARE determinate scelte diagnostiche terapeutiche e assistenziali, può farci incorrere in quello che viene definito accanimento terapeutico e quando invece si sfiora l’eutanasia? E’ giusto correre il rischio di creare quelle che un primario di Terapia Intensiva ha definito”vite botaniche”? Queste e altre le domande, i dubbi, che percorrono la mente degli infermieri, soprattutto di Terapia Intensiva, che hanno a che fare con questi temi tutti i giorni, che tutti i giorni devono rapportarsi con il dolore e la sofferenza di un fine - vita non sempre dignitoso e rispettoso delle volontà dell’assistito e dei suoi familiari. Ogni evento luttuoso viene vissuto dagli operatori sanitari, sia medici che infermieri, come un “fallimento terapeutico”, e non come la naturale evoluzione della patologia. Aspettative risolutive quindi al di sopra della norma, che rendono l’operatore demotivato, stressato, ansioso e spesso depresso, situazione al limite che Christina Maslach definisce come “operatore cortocircuitato” più avanti riconosciuta una vera e propria sindrome (burn-out).
E’ da queste motivazioni e dalla personale esperienza di Infermiera di Terapia Intensiva, che nasce l’esigenza di “dare voce” alle sensazioni e ai sentimenti di coloro che sono in “prima linea”, attraverso una ricerca fenomenologica qualitativa, dove ho cercato di valutare quanto gli Infermieri sono coinvolti e sono chiamati ad esprimere una propria opinione riguardo alle scelte di “finitezza della vita”, scelte non solo diagnostico-terapeutiche, ma soprattutto assistenziali. La ricerca fenomenologica non ha fini statistici o sperimentali ma cerca di carpire il vissuto in base alle esperienze di vita e professionali di un gruppo. Il padre della fenomenologia, che non è solo metodo di ricerca ma è anche filosofia, è Edmund Husserl, che esprime con chiarezza il significato di “vissuto esperienziale” riferendosi a ciò che la persona elabora nella propria coscienza attraverso le esperienze di vita.
La ricerca si è svolta presso la ASL 10 di Firenze, Ospedale Nuovo del Mugello, presso l’Unità Operativa di Terapia Intensiva dove svolgono la loro attività 17 Infermieri.
Il campione di ricerca propositivo è stato abbastanza ristretto considerato la piccola realtà presa in esame; 5 Infermieri sono stati sufficienti per ottenere la saturazione dei dati richiesti.
Il disegno di ricerca ha seguito il metodo Giorgi, attraverso l’esecuzione di interviste semi – strutturate con le quali il ricercatore ha cercato di lasciare libera espressione ai professionisti.
La fase successiva alla registrazione su nastro delle interviste è stata quella dell’elaborazione e della trascrizione delle stesse cercando di estrapolare le principali “unità di significato” utili allo scopo della ricerca stessa.
Il risultato della ricerca ha evidenziato come gli Infermieri si sentano “tecnicamente” preparati all’evento della morte di un loro paziente, ma siano completamente non protetti da un punto di vista psicologico ed emotivo, tanto da “trascinarsi” il lavoro a casa con conseguenze sui rapporti familiari e di relazione. Intendono per “buona morte” una fine senza dolore e soprattutto dignitosa nel rispetto anche delle differenze etniche e culturali. Credono che l’intervento di figure di sostegno come counselor e psicologo siano fondamentali soprattutto nei “casi” più difficili e coinvolgenti e che la formazione permanente e continua sui temi di fine vita possa in qualche modo “strutturare” la propria professione. Ma l’aspetto più drammatico che scaturisce dalla ricerca è senza dubbio il fatto che il gruppo infermieristico non ha assolutamente nessuna voce in capitolo riguardo a scelte diagnostico-terapeutiche e assistenziali nella finitezza della vita inasprendo così il rapporto con l’equipe medica che resta unica “voce decisionale”, relegando l’infermiere dentro una “gabbia emozionale” ingiusta per la professione e per la dignità di esseri umani. Le strategie dell’Infermiere Coordinatore sono volte soprattutto alla prevenzione dello stress derivante dal “non esprimersi” nonostante l’impegno costante riservato non solo ai pazienti ma anche e soprattutto ai parenti sempre più presenti grazie anche al progetto del “passo aperto” che permette la continuità affettiva anche nei momenti di fine-vita.
Nessun protocollo o standard di comportamento può guidare l’Infermiere di Terapia Intensiva in situazioni difficili da superare, come la sofferenza e la morte, ma la vera forza e la vera essenza degli infermieri è da sempre la capacità di conforto e di ascolto, forza non misurabile in termini “aziendalistici” ma sicuramente di grosso peso qualitativo.
Dedico questo lavoro a tutti i colleghi Infermieri di ogni Terapia Intensiva…perché con la forza e la determinazione che li contraddistingue “escano”fuori da quella gabbia e facciano sentire forte la loro voce…abbiamo il diritto e il dovere come professionisti e come esseri umani di “dire la nostra”…!