In questa tesi ho cercato di approfondire la tematica della relazione assistenziale, riflettendo soprattutto sulla situazione di un operatore che si trova “dall’altra parte”. Le testimonianze di operatori che incontrano la malattia confermano la necessità del tempo dedicato alla relazione, al rapporto con il paziente, come parte integrante del processo di cura.
Analizzando la teoria della relazione d'aiuto, si comprende quanto questo tempo dedicato sia importante e necessario. Per avere conferma della relazione come parte integrante dell’assistenza, ho approfondito le fasi del processo assistenziale: dal prendersi cura al comunicare e relazionarsi, attraverso le testimonianze di infermieri e medici. Dalle parole degli operatori ascoltati per l'elaborazione della tesi si ha un ulteriore conferma dell’importanza della relazione e del percorso di riflessione e critica fatto dai testimoni rispetto al loro lavoro precedente la malattia. L'insegnamento in fase di formazione acquista un ruolo pregnante per sensibilizzare i futuri operatori all'approccio con il paziente e al lavoro interiore/personale sulla sofferenza dell'altro e la propria come professionista di aiuto. L’idea della mia tesi nasce dall’interesse per il processo di assistenza e per le sue caratteristiche umane e relazionali. Il tirocinio si dimostra un’occasione per conoscere il mondo professionale futuro visto con i propri occhi e vivere sulla propria pelle l’esperienza ospedaliera. Tutto questo concorre ad acquisire competenze oltre che tecniche anche specificamente relazionali che possano essere utili nel fronteggiare le dinamiche che un paziente tende a sviluppare durante l’evento malattia: le più frequenti reazioni psicologiche, i naturali meccanismi di difesa. Le qualità umane legate al sapere infermieristico, arricchite dalla formazione personale in ambito relazionale creano quelle competenze necessarie e fondamentali all’agire infermieristico. Decidere veramente di prendersi cura di un paziente, assisterlo essergli di aiuto con continuità, professionalità ed efficacia, richiede una competenza abbastanza complessa. Non basta solo il “saper fare”, ma anche il “saper essere”. Nelle mie esperienze di tirocinio, fortunatamente non sono stati molti gli episodi riconducibili ad una “non “corretta relazione d’aiuto, ma quei pochi sono stati, una spinta ulteriore ad approfondire temi riguardanti la relazione e il rapporto infermiere-paziente. Il tirocinio, oltre ad essere un momento formativo fondamentale, diventa anche un momento di importante riflessione che apre a molti interrogativi, uno dei quali: Ma se io fossi in quel letto come vorrei essere trattato? Una semplice domanda che apre a molteplici risposte. Mettersi dall’altra parte significa vivere l’ansia di non sapere cosa realmente stia succedendo, la comunicazione spesso diretta più al fare tecnico che relazionale non arriva al paziente, come se non lo includesse o non lo riguardasse direttamente, lasciandolo “solo” in preda ai propri dubbi e ansie. La consapevolezza da parte dell’operatore di prendersi cura di una persona con una propria storia personale ha una forte rilevanza: questo livello di consapevolezza dovrebbe essere sempre tenuto piuttosto alto, proprio per evitare errori comunicativi o fallimenti relazionali. Quando poi l’operatore sanitario passa “dall’altra parte”: dalla cura all’essere curato, il punto di vista cambia ed è questo punto di vista che con questa tesi vorrei indagare. In questo mio elaborato, attraverso testimonianze di medici e infermieri, ho raccolto esperienze di chi ha vissuto una situazione particolare: essere nel contempo operatore sanitario e paziente. Dall’intervista di un medico e un’infermiera fiorentina: Luciana Coèn e mettendo la loro testimonianza a confronto con la mia stessa personale esperienza, ma anche l’esperienza comune ha fatto emergere come il sistema sanitario sia ancora carente di una formazione umanitaria, nel senso che, nella formazione medica, si privilegia di più la competenza scientifica, tralasciando quella umanistica, o comunque lasciandola come integrazione e retaggio di una cultura ed esperienza del tutto personali e soggettive.
Oltre al sapere scientifico, senza il quale non si potrebbe esercitare la professione, è importante infatti sviluppare anche la capacità di ascoltare e di relazionarsi con il paziente. Sicuramente essere sia operatore che paziente aiuta a comprendere di più, ma non bisogna necessariamente ammalarsi e vivere in prima persona l’esperienza della malattia perché l’assistenza abbia maggior peso e una più qualificante connotazione di sensibile e partecipante umanità. Certo, essere dalla parte del paziente aiuta a comprendere la condizione umana che la malattia rende fragile. La narrazione e le esperienze dell’essere l’uno e l’altro ci consentono di riflettere su quanto sia difficile il ruolo del paziente, ma altrettanto su quanto lo sia anche il ruolo dell’operatore sanitario. In qualità di operatori, quando sentiamo parlare di episodi di ”malpractice”, capita di percepirli come un’esagerazione se non una mera invenzione, ma quando si passa dall’”altra parte” e si riveste il ruolo di paziente, allora la percezione cambia, tutti i sensi sono all’erta e si ha quasi paura di ciò che si può vedere, sentire o captare. Voglio esprimere qui, a questo punto, una riflessione personale, frutto di un’esperienza di qualche anno fa, fatta sia in qualità di paziente che di infermiera-tirocinante, che mi ha dato un insegnamento in entrambe le vesti, quale arricchimento personale ma anche formativo. In seguito ad un ricovero per un trattamento di radioterapia metabolica vengo dimessa; il dottore, con estrema freddezza, senza mai volgermi lo sguardo per vedere il mio stato d’animo, mi legge una serie di comportamenti da seguire a casa, l’isolamento protetto; non mi pone alcuna domanda, semmai mi avanza una critica o meglio un rimprovero nel momento del commiato (e riconosco da subito il mio errore), per avergli porto la mano in segno di saluto, proprio dopo avermi raccomandato il comportamento da tenere a seguito dalla terapia radiante. Ricordo che, come un flash, la mia memoria corse ai libri di testo dove, pagine e pagine, trattano di come un operatore debba appropriarsi di capacità comunicative e relazionali. Rimasi fortemente delusa. Dopo un po’ rimisi la divisa da tirocinante-infermiera, in una Chirurgia, e mi capitò di assistere un paziente che doveva subire un intervento di cambio di sesso; sicuramente non ero preparata a simili chirurgie ed essendo alle prime esperienze di tirocinio, cercai la via di approccio più professionale possibile. Fu lo stesso paziente a muovermi alcune critiche, avendomi percepito molto tecnica ma poco accogliente. Accettai quella sua osservazione, riconoscendo subito quanto fossi stata poco efficace da un punto di vista relazionale e comunicativo. Entrambe le situazioni mi hanno fatto riflettere su come non vorrei essere trattata, ma anche su come non si debba trattare. Non vorrei che la mia esperienza narrata avesse un’impronta troppo autobiografica, ma vorrei solo venisse presa come una testimonianza, che potesse far riflettere i colleghi, su quanto sia importante interrogarsi soprattutto di fronte agli insuccessi comunicativi. La domanda, che nasce dal desiderio di essere “bravi” operatori, riguardo i buoni esiti del proprio lavoro, non può che essere una domanda continua che si ripropone ogni qualvolta si avvertano situazioni o interazioni poco soddisfacenti con i pazienti. E’ chiaro che il nostro standard qualitativo di riferimento dovrà essere il più elevato possibile, tale da restituirci nel quotidiano feed-back comunicativi e relazionali positivi e funzionali. Il filo rosso che attraversa la mia tesi, segue una sorta di traccia esistenziale che evidenzia il tempo della cura come investimento relazionale sul paziente, che lo possa veramente sostenere durante il difficile percorso della malattia. Da qui il mio forte interesse per una recente prospettiva quale è quella della Medicina Narrativa.” La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda per raccontarla”, questa frase di G.G. Marquez introduce sapientemente il valore della narrazione come atto comunicativo ma anche come forma tipica di strutturazione dell’esperienza. Dare valore all’incontro attraverso il racconto che il paziente costruisce intorno alla sua malattia, conferisce una sorta di privilegio comunicativo che non può che arricchire la relazione terapeutica. Dalle testimonianze degli operatori sanitari si apprezza chiaramente quanto in prima istanza sia difficile per un operatore “riconoscere” la propria malattia e vedere negli altri quello che magari “loro” stessi sono stati: un processo di identificazione che talvolta può essere anche piuttosto amaro. L’evento malattia e tutto ciò che sta dentro cambia e ridefinisce l’esistenza, è quindi piuttosto normale, che chi abbia vissuto un’esperienza dolorosa sviluppa maggiore sensibilità umana e una forte carica empatica nei confronti di chi vive un momento difficile. Gli Autori, infatti, ci ricordano che un’organizzazione sanitaria deve avere al suo interno operatori formati ad una cultura della relazione e dell’ascolto, non con temi buonisti o astratti, ma anzi sfidanti, concreti, fecondi. L’ascolto delle narrazioni, il prendersi cura, l’agire comunicativo, il desiderio dell’incontro interumano, non potranno che diventare fasi portanti e irrinunciabili all’interno del processo di guarigione.