Riportiamo di seguito la testimonianza di un'infermiera, Joselyn Pasini, la quale, attraverso le sue parole, ci fa riflettere su quanto anche la morte di una persona diventi una quotidiana routine, spogliando questo evento così importante di tutta quell'attenzione che sarebbe doveroso attribuire.
11 maggio 2017, esattamente un mese prima festeggiavo con la corona d’alloro in testa. "INFERMIERA", un sogno realizzato e tu, tu eri lì con me a festeggiare il giorno più bello della mia vita.
Eri silenziosa, un po’ in disparte, non ti piaceva quella parrucca o meglio, non ti piacevano gli occhi addosso delle persone.
"Chissà perché un malato di cancro viene guardato con quegli occhi", mi domandavi, spesso senza trovare risposta. Mi avevi insegnato in quei due anni di lotta, che il silenzio, uno sguardo, un semplice gesto, valgono più di mille parole. Ed io non avevo potuto far a meno di far tesoro di quelle parole che mi tornavano in mente tutte quelle volte che davanti a me non c’eri tu, ma le persone che ho incontrato nei vari reparti con la divisa da tirocinante.
È passato solo un mese da quel giorno ed io sono qui, in ascensore, diretta al reparto che mi ha vista con quella divisa per tre lunghi mesi del mio percorso formativo. Credo sia stato uno dei reparti in cui ho imparato più cose in assoluto, mi dicevano che lì ci avrei lasciato la schiena ma io, oltre alla schiena, credo di averci lasciato anche un pezzo di cuore.
Innanzitutto, sono stati tanti i momenti in cui ho toccato la morte da vicino. Ricordo come se fosse oggi il primo pomeriggio lì, quando mi dissero che c’era da preparare la “mummia ”*. Seguivo l'infermiera alla quale ero stata assegnata, in riflessione, un passo indietro. Qualche secondo più tardi avrei capito che si trattava di un’anziana morta da circa 30 minuti a cui andavano staccati gli elettrodi di un elettrocardiogramma ormai piatto preparandola per il suo viaggio verso le Cappelle del Commiato.
Entro in reparto e vengo travolta da un’ondata di emozioni.
Oggi che sono infermiera, so tutto quello che ti faranno e l’idea che qualcuno faccia di te una mummia, come prassi di una routine, credimi Giuliana, mi spezza il cuore.
Una tirocinante un po' impacciata entra nella stanza, ha tra le mani un’arcella di carta ed io non posso fare a meno di riconoscere la flebo su cui ha scritto a pennarello "morfina" ed il relativo dosaggio. La osservo nel meccanicismo delle sue azioni e non sai quanto mi dispiace che cambi quella flebo senza neanche incrociare il tuo sguardo.
A distanza di poche ore, che a me sono sembrate un'eternità, quelle flebo hanno fatto il loro effetto. Ci hanno fatti uscire dalla stanza, ti stanno preparando per il tuo ultimo viaggio. Aspettiamo appoggiati al muro, come se non avessimo più il diritto di stringerti la mano, di asciugarti il sudore, di parlarti. Adesso dobbiamo stare fuori per rivederti, dopo l’attesa, avvolta nelle famose lenzuola bianche.
Erano un po’ di mesi che non mi trovavo davanti ad un corpo senza vita ma ero comunque pronta all’immagine che mi sarei trovata davanti. Io, io sì, ma gli altri sicuramente non si aspettavano di vedere solo il tuo volto senza il tuo pigiama rosa che poco prima indossavi.
Si è fatto buio, aspettiamo in piedi quella barella di acciaio che dopo qualche ora verrà a prenderti. In piedi, fuori dalla tua stanza, per ore. Nessuno si avvicina a noi in quel lasso di tempo, nessuno sguardo, nessun silenzio che valga più di mille parole, niente.
Nessuno ha avuto la sensibilità di osservare con occhi diversi la situazione. Tutti dietro alla frenesia del cambio turno, i carrelli della terapia, i campanelli a cui accorrere e noi lì che, pur non suonando un campanello, avevamo bisogno ... tanto.
La morte non mi aveva mai toccata da vicino come quel giorno. Da allora, come infermiera, mi sono promessa di accompagnare paziente e familiari in questo "ultimo viaggio" come l’ho definito io, con quella sensibilità che tanto ho desiderato e di cui ho avuto bisogno in quei momenti.
*Termine con il quale si voleva indicare la preparazione infermieristica della salma che, in posizione supina con gli arti allineati, viene avvolta interamente con un lenzuolo lasciando visibile soltanto il volto del defunto.