La comunicazione tra medici e familiari dei propri pazienti

Segnaliamo, di seguito, un articolo della redazione di Healthdesk che affronta il tema della comunicazione tra medici e familiari dei propri pazienti alla fine della vita di questi ultimi per conoscere le loro volontà.

Domande laconiche, pochi giri di parole, richieste dirette per ottenere risposte certe, con il legittimo scopo di sapere come procedere: dobbiamo intubare? dobbiamo eseguire la rianimazione cardio-polmonare?

Ma si può fare di meglio. Nei colloqui con i famigliari dei pazienti in condizioni di salute critiche, i medici dovrebbero scavare più a fondo e arrivare a conoscere i desideri delle persone che hanno in cura, i loro valori, le loro preferenze di trattamento. E le domande sulle procedure da eseguire dovrebbero essere più articolate.

Qualcosa del tipo: se il paziente in fin di vita potesse parlare, come vorrebbe passare il resto dei suoi giorni? Vorrebbe rimanere lucido per riuscire a congedarsi dai suoi cari? Vorrebbe un prete per confessarsi? Vorrebbe terminare qualche attività rimasta incompiuta? Vorrebbe morire a casa?

Sono informazioni necessarie per potere prendere decisioni cliniche in sintonia con l’indole specifica di ciascun individuo.

Ma, secondo uno studio appena pubblicato su Jama Internal Medicine, le conversazioni tra specialisti e famigliari spesso lasciano a desiderare nei tempi, nei modi e nei contenuti.

I medici, scrivono i ricercatori, dovrebbero dedicare più tempo ai colloqui con i famigliari spiegando i pro e i contro delle varie opzioni di trattamento per poter scegliere in maniera condivisa la soluzione più in linea con le priorità del paziente. Accade raramente.

Gli scienziati hanno valutato i risultati di 244 riunioni tra medici e famigliari di pazienti ricoverati in reparti di terapia intensiva con gravi difficoltà respiratorie e con alte probabilità di morire in ospedale.

I pazienti avevano un’età media di 58 anni non erano in grado di esprimere le proprie volontà. Spettava ai parenti decidere per loro, scegliendo tra cure palliative o interventi più aggressivi.

Ebbene, solo il 68 per cento dei colloqui ha affrontato il tema dei valori e delle preferenze dei pazienti sulle cure di fine vita. E solamente nel 44 per cento dei casi le conversazioni hanno condotto a decisioni in accordo con i valori dei pazienti.

Sembra che gli argomenti più importanti siano stati regolarmente trascurati. Solamente il 36 per cento delle riunioni ha toccato i punti salienti delle cure terminali: quanto conta per un paziente mantenere le funzioni cognitive e fisiche? qual è il ruolo della religione e della spiritualità nella sua vita?

Il bilancio finale dell’indagine è scoraggiante. Solamente nell’8 per cento dei casi, durante il colloquio, i medici hanno proposto un trattamento in base alle preferenze dei pazienti.

Eppure una efficace comunicazione tra medici e famigliare potrebbe fare la differenza nelle ultime fasi di vita di una persona. Potrebbe consentire al paziente di salutare i propri cari, di partecipare a una cerimonia religiosa o di finire qualcosa lasciata in sospeso.

«Potrebbe migliorare la gestione dei sintomi, ridurre la sofferenza e fornire un sostegno emotivo alle famiglie. Al contrario, una comunicazione scadente può contribuire a ricevere trattamenti invasivi che il paziente non avrebbe voluto, a impedire alle persone di dire addio e ad aumentare lo stress delle famiglie nel prendere le decisioni», ha detto Leslie Scheunemann dell’Università di Pittsburgh, a capo dello studio.

I ricercatori suggeriscono ai parenti dei pazienti alcune “formule” che possono rivelarsi utili nel colloquio con i clinici. Tra queste, per esempio, la semplice domanda: qual è lo scenario migliore e peggiore che si prospetta in seguito a una scelta terapeutica?

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