Sulla sezione cronache de Il Corriere della Sera Daniela Monti, intervista Giada Lonati, che oltre ad essere medico e direttore sociosanitario dell’associazione Vidas, che assiste gratis malati terminali e le loro famiglie famiglie, è anche l’autrice di «L’ultima cosa bella», libro edito da Rizzoli e da quasi un mese presente sugli scaffali.
Un gruppo di mamme, unite dall’esperienza di crescere i propri figli. Finché una di loro si ammala: tumore cerebrale. Viene ricoverata in una struttura per pazienti in fase terminale, l’hospice. «Mi è sembrato naturale proporre alle altre di andare a trovarla, ma più di una mi ha risposto: “Non me la sento, mi fa stare troppo male…”. La malattia è anche solitudine concreta», scrive Giada Lonati, medico palliativista, in L’ultima cosa bella (Rizzoli) sulla dignità e la libertà alla fine della vita. Ed è facile riconoscersi in quelle madri che scantonano, che cercano scuse, non per cattiveria, ma perché la malattia spaventa e a nessuno piace gli venga ricordato che la morte, prima o poi, toccherà anche lui, anche noi.
Essere palliativista significa essere un medico che non guarisce i pazienti. Possibile ne esistano? E allora a cosa servono? Nel libro c’è una scenetta comica (non è l’unica, leggendolo si scopre quanto contino l’ironia e il sorriso): Samuele, il bimbo di Giada, sente una telefonata in cui la madre riceve la notizia che uno dei suoi pazienti è deceduto. «Mamma — dice fra lo sconsolato e il preoccupato — ma ti è morto anche questo?». Insomma: che medico sei?
Giada Lonati è un medico che non guarisce ma che sa fare tante altre cose: è direttore socio sanitario di Vidas, l’associazione milanese che dal 1982 assiste gratuitamente i malati terminali e le loro famiglie (la postfazione del libro è firmata dal presidente, Ferruccio de Bortoli), e sa che, se anche esistono malattie inguaribili, le persone sono sempre curabili. Sa che il fine vita non è solo tempo di dolorosa attesa, ma può essere di straordinaria pienezza e intensità. Sa che la morte è un limite estremo, ma anche un sano orizzonte.
Il libro è fatto di storie: di figli che non vogliono dire la verità agli anziani genitori, anche se negare e minimizzare «equivalgono a lasciare il paziente confuso e spesso solo nel dolore, nel non poter dire “sto male”, oppure “ho paura” o addirittura “sto morendo”»; storie di persone che invece non solo sapevano, ma avevano profondamente capito che sarebbero morte e questo ha gettato una luce più nitida sul loro presente, «li ha resi intensamente vivi», fino all’ultimo; storie come quella di Donatella, che per andarsene sceglie la sedazione profonda, decisione estrema ma lecita quando la sofferenza sia giudicata intollerabile da chi la prova («il dolore è sempre di chi ce l’ha, è lui l’unico titolato a valutarne l’intensità») e si riveli refrattaria all’approccio di cura. Storie comuni: la medicina che guarisce le considera «una sconfitta», ma fanno parte dell’esperienza di tutti.
Il libro racconta come la medicina stia cambiando: dal modello «paternalistico», con il medico onnipotente, a quello «informativo», che rovescia sul malato ogni sorta di dettaglio, lasciandolo disorientato e incapace di decidere, fino al nuovo modello «interpretativo», obiettivo a cui tendere più che traguardo raggiunto, «in cui il medico aiuta il paziente a riconoscere i propri desideri, a riordinare le priorità e scegliere». Ecco allora l’importanza delle disposizioni anticipate di trattamento — la legge è ancora in discussione — e della pianificazione anticipata della cura, per tradurre quelle decisioni nel concreto della malattia.
Come rivendicare la libertà di decidere sul fine vita se ostinatamente chiudiamo gli occhi, accarezzando sogni di immortalità? «Un supplemento di saggezza, più che la sconfitta della morte, è la vera sfida della medicina moderna», chiude Lonati. Non solo della medicina. In fondo, di tutti.