L’incontro che cura

Dalla pubblicazione dell'Associazione "Mosaico" per i 20 anni della Casa Alloggio " Villa del pino" proponiamo di seguito L’incontro che cura di Emilio Baccarini.

Premessa

Almeno implicitamente, quasi come una ‘certezza naturale’, ciascuno di noi sa che cos'è un incontro, che cosa significa incontrare. Tuttavia, dal punto di vista di una riflessione antropologica che voglia giungere alla soglia della consapevolezza, di un'esistenza attenta e attiva, non è così scontata la risposta alla domanda ‘che cos’è l’incontro?’ oppure all'equivalente forma verbale ‘che significa incontrare/incontrarsi?’. Nella normalità dell'esistenza quotidiana forse, sebbene non ne sia convinto, questa consapevolezza non è neppure necessaria, certamente non è la condizione perché l'incontro accada. Si tratta, allora, soltanto di una ‘stranezza’ da filosofi o compiere un'analisi che ci permetta di avvicinare il significato antropologico profondo che una riflessione sull’incontro potrebbe rivelare, ha un senso?

Come si vedrà alla fine di questo breve percorso, forse, la nostra analisi non è né inutile né oziosa, ma ci permetterà di acquisire in maniera derivata un'ottica sull'esistenza. Attraverso un'analisi di tipo fenomenologico cercheremo di aprire una finestra da cui si possa guardare dentro le strutture costitutive dell'esistenza e in tal modo acquisire una più autentica consapevolezza sul senso stesso dell'esistere; credo che sia proprio questo, infatti, uno dei problemi fondamentali del nostro esistere oggi: la mancanza di una ‘coscienza desta’ che ci accompagni nella quotidianità. Non si tratta della serietà o della seriosità della vita, quanto piuttosto di una vita che si espliciti nell'orizzonte della luce intenzionale e non soltanto della casualità dell'accadere. La differenza non è di poco conto e, proprio nell'incontro, attraverso la riflessione sulla natura dell'incontro, si può cogliere la diversa modalità possibili di vivere.

Ognuno vive nel mondo con la consapevolezza di non essere solo, c'è un'implicita coscienza di vivere in un mondo abitato da una pluralità di soggetti che hanno tra loro nessi strutturali. Il mondo è l'orizzonte comune e accomunante, lo scenario in cui la molteplicità dei soggetti si incontra attraverso l’esercizio di un ruolo in cui si esplicita il senso del proprio esistere. La certezza elementare del tu, pur non essendo affatto scontata, è la prima certezza con cui si abita il mondo, certezza che definisce l'umano come relazione prima che come sostanza.

Attitudine: attesa e attenzione

Iniziamo il nostro percorso da questa constatazione che l'uomo è relazione prima che sostanza o, se si vuole, è una sostanza relazionale. Questo primo dato è decisivo per le nostre analisi, poiché anche l’incontro deve essere considerato nel piano della relazione e non della sostanza. L'incontro, soltanto dal punto di vista della descrizione, è un sostantivo, ma la sua realtà lo colloca nell'orizzonte della verbalità. Incontrare e incontrarsi sono i veri dati fondamentali di una fenomenologia dell'incontro. Nella sua forma attiva il verbo manifesta una struttura itinerante del soggetto che percorre le strade del mondo e lungo questo percorso trova accanto a sé altri soggetti e altre situazioni. C'è un rimando a un fuori di sé che delinea lo spazio che consente una coscienza di non solitudine. Il mondo ambiente descrive la struttura antropologica elementare, l'orizzonte identificante che ci costituisce e a partire da cui si forma la nostra capacità di dare senso al mondo. La mia esperienza del mondo è un'esperienza che mi accomuna alle molteplici esperienze degli altri soggetti umani. Vedremo più avanti che nella sua forma attiva, incontrare, manifesterà il primato della soggettività personale transitiva, mentre nella forma riflessiva il verbo manifesta immediatamente che due persone sono l'una di fronte all'altra. Ma anche che la riflessività costituisce un percorso di interiorizzazione attraverso il quale l'altro mi consente di penetrare nella mia interiorità. L'incontro con l'altro è la condizione di possibilità per incontrare me stesso, ma al tempo stesso è il modo attraverso il quale il soggetto umano opera concretamente nel mondo. L'incontro è sempre un movimento nel quale si manifesta la possibilità che ciascuno ha di uscire da sé e di rientrare in sé, ma fondamentalmente è l'attitudine di vivere con consapevolezza e quindi con una coscienza desta la propria presenza al mondo. Vivere desti significa acquisire un'attitudine particolare che dovrebbe essere la caratteristica fondamentale di ogni essere umano ed è costituita da due elementi particolarmente preziosi che sono l'attenzione e l’attesa. Essere attenti e attendere sono, o almeno, dovrebbero essere i modi di esercizio abituale dell'esistenza. Essere attenti significa una vigilanza attiva che rende possibile il riconoscimento, è questa la caratteristica fondamentale che vedremo dell'incontro, il riconoscimento dell'altro come un mistero di fronte al quale sono in una situazione di attesa e quasi di rivelazione/ascolto. In questa prospettiva ogni incontro è un mistero che sollecita l'approfondimento delle dimensioni personali che fanno sì che l'incontro stesso non venga banalizzato e ricondotto alla vanità del quotidiano.

Incontrare, a sua volta, equivale ad andare incontro è già qui il verbo si carica di una particolare tensione che vedremo sarà fondamentale per parlare della cura. Andare incontro non è più soltanto incontrare, ma ha il peso della forza della volontarietà, cioè di un atto libero che riconosce nell'altro non più soltanto un estraneo bensì un bisogno che reclama il mio intervento. Non si tratta naturalmente di una prometeismo o di un protagonismo narcisistico, ma della percezione che nell'incontro si realizza il più autentico personale esercizio esistenziale. L'esistenza si autentica in questo modo. Il bisogno dell'altro che ha bisogno di me mi convoca alla responsabilità in cui si compie il senso dell'evento della mia esistenza.

Proviamo a vedere meglio, sebbene brevemente, cosa significano attesa e attenzione per una fenomenologia dell’incontro. Riprendiamo le mosse da quanto si diceva sulla struttura relazionale che noi siamo. L’identità relazionale è quella che non riposa sostantivamente in se stessa, bensì quella che sa costitutivamente che il proprio essere è ‘collegato’, strutturalmente, alla molteplicità degli altri esseri umani. Se interpretiamo questo dato nell’ottica dell’attesa e dell’attenzione di cui stiamo parlando, ci accorgiamo immediatamente che non si da relazione al di fuori di una ‘presa di coscienza’ della differenza che mi è ‘di fronte’. La relazione ‘disattenta’ non è propriamente relazione poiché in verità ‘essere in relazione’ indica e implica un coinvolgimento al livello ontologico della persona. Il collegamento che mi lega all’altro e alla molteplicità degli altri diventa consapevolezza che la mia identità si costituisce a partire da questo collegamento. Io sono nella relazione non nella solitarietà. Sebbene non si percepisca immediatamente però, l’affermazione della relazione non significa scomparsa o negazione della propria singolarità, bensì affermazione di una singolarità bisognosa. È questo bisogno ontologico che mi colloca nella prospettiva dell’attesa. Attendo ciò (colui/colei) di cui ho bisogno e quindi mi trovo ‘esposto’ e vigile. In tal modo la relazione si riempie di un senso esistenziale, non banale, di cui l’incontro è il momento originario e fontale. Incontrare un uomo significa essere tenuti svegli da un enigma o da un mistero che sollecitandomi mi costringe a continue ‘prese di posizione’ in-quietanti. Non è la ‘paura’ dell’altro che mi sollecita alle ‘prese di posizione’, ma appunto la percezione che qualcosa possa accadere. L’attesa coincide con questa in-quietudine, poiché l’evento, la possibilità, non è dominabile da me, non dipende da me, anzi io ne dipendo. L’attesa dell’evento, l’attesa come evento, prepara l’incontro, lo rende prezioso.

Ho messo queste due ‘categorie’, attesa e attenzione, sotto la voce ‘attitudine’ e non casualmente. Il termine corrisponde al greco ethos o al latino habitus, cioè un atteggiamento non ‘naturale’, sebbene permetta di scoprire la naturalità del bisogno da cui siamo costituiti. Se, però, la soddisfazione del bisogno rimane dentro la sfera della soggettività singolare, può diventare la sorgente della violenza e della sopraffazione. Se, al contrario, diventa l’habitus che muove l’incontro avremo la relazione efficace, la relazione giusta, l’interumano. Io sono tra noi, potremmo dire parafrasando Emmanuel Levinas, che significa esplicitamente la mia assunzione di responsabilità per l’altro, ma di ciò tra breve.

L'incontro, ogni incontro, rappresenta la singolarità dell'evento e quindi non si delinea all'interno di una continuità, anzi ogni incontro è segnato e segna una discontinuità. L'incontro in questo senso ha la caratteristica della creazione e anche ogni volta della ri-creazione. La caratteristica peculiare della creazione è la singolarità e così anche ogni incontro nelle sue caratteristiche di evento è assolutamente singolare. Che cosa si intende sottolineare attraverso la continuità-discontinuità? La tentazione maggiore di ogni processo conoscitivo e, prima ancora, di ogni vissuto personale è quella di inserirlo all'interno di una rassicurante serialità. La novità, e ogni incontro è una novità radicale, la novità che può inquietare, e che gettandoci verso l'inedito che costringe a riformulare le coordinate di senso nei confronti della realtà. Questo elemento è fondamentale per una fenomenologia dell'incontro. Uno dei due poli relazionali dell'incontro, infatti, l'altro, l’alterità che ho di fronte, rappresenta per me certamente un'incognita. L'altro può essere in prima istanza incontrato come un estraneo, un diverso, un nemico, semplicemente come un differente che si introduce nel mio spazio personale, nel mio orizzonte esistenziale e produce un turbamento che costringe a confrontarsi. In questo senso l’incontro, ogni incontro, è sollecitazione a non permanere in sé e ad uscire da sé, è estroversione. La soggettività estro-versa è la soggettività relazionale. Uscire da sé è la caratteristica di una soggettività ‘nomade’ in continua ricerca di sé. L’in-soddisfazione che caratterizza una soggettività così descritta non equivale però, come spesso oggi si pensa, a una ‘liquefazione’ che ne anticipa la destrutturazione/decomposizione. Si tratta invece del riconoscimento che nell’uscire-da-sé, nell’estro-versione, si realizza un processo di identificazione. Nell’incontro dell’altro si compie il senso dell’essere se stessi. In questo senso si apre un nuovo percorso, più operativo, quello etico.

La dimensione etica dell’incontro

Oltre la dimensione semplicemente antropologico-esistenziale che abbiamo cercato di tratteggiare brevemente, si apre la dimensione etica. Il presupposto ‘oggettivo’ dell’eticità dell’incontro lo possiamo riscontrare in un dinamismo particolarmente interessante sul piano fenomenologico. Senza la relazione io-tu, come relazione personale tipica, non ci sarebbe neanche l’etica. Questo è anche il motivo per cui la chiusura nel proprio spazio isolato diventa una sorta di colpevole allontanamento. Il non riconoscimento dell’altro è la colpa.

Tuttavia, proprio questi elementi permettono di vedere nell’incontro uno spazio di mistero e di gratuità come spazi originari per l’esercizio autentico della dimensione etica originaria. Nell’incontro si manifesta un dinamismo interessante di riconoscimento-accertamento che precede qualsiasi altra successiva prospettiva. Il riconoscimento del’altro che incontro non è subordinato a nessuna condizione, è questa la gratuità che però si trasforma anche in grazia; la grazia di sentirsi ri-conosciuti, attestati per se stessi. In questo dinamismo consiste il miracolo dell’incontro che è, tuttavia, appeso al fragile filo della libertà umana. Per questo motivo l’incontro autentico è così difficile, per questo la storia è piena di incontri ‘mancati’ o, peggio, di scontri.

Il dinamismo etico più proprio dell’incontro si distende tra una ‘chiamata’, un appello, e una risposta/responsabilità che riconosce e insieme istituisce lo spazio etico decisivo, quello della prossimità. “Ama il prossimo tuo…” è la legge fondamentale dell’incontro riuscito.

Analizziamo brevemente gli elementi proposti. In che senso il primo dato è la chiamata? L’altro che incontro, come dicevamo, mi inquieta, la sua semplice presenza rappresenta per me una convocazione, un’esigenza che mi è rivolta non in maniera neutra, ma personale. Dal suo volto, la concretezza che mi è davanti, proviene una pro-vocazione personale, non un dovere astratto, che attende una risposta e che mette in gioco la mia libertà e la costringe a prendere posizione nella responsabilità.

La responsabilità è la risposta al tu che avviene nell’incontro. Una risposta tuttavia, che deve avere le caratteristiche della deliberazione e della scelta amorosa. Non può essere una responsabilità costretta, bensì una risposta accogliente e soprattutto, bene-volente. In questo senso bisognerebbe ripensare totalmente il senso dell’incontro interumano. La responsabilità che si traduce in amore, a mio avviso, trasforma l’umano in etico e fa dell’etico lo spazio originario dell’interumano. L’incontro in questo senso, come costituzione di prossimità, diventa il modo originario dell’esercizio della propria umanità.

La prossimità è allora la categoria fondamentale che qualifica l’interumano. Se non ci si incontra nella prossimità, non si raggiunge il livello pienamente umano dell’incontro. Incontrarsi è farsi prossimo. Vedremo subito la valenza decisiva di questa espressione applicata alla cura. In termini generali possiamo allora dire che ogni incontro si trasforma in un prendersi cura, in assunzione di responsabilità. Essere se stessi significa essere responsabili.

La nuova provocazione antropologica: la cura

Nel contesto etico-antropologico la struttura nomadica dell’esistenza a cui si accennava manifesta tutta la sua carica di provocazione . La ricerca della propria identità passa, come abbiamo visto più sopra attraverso la differenza. Ciò vuol dire che il sé, come proprio sé, è fuori di sé, senza tuttavia essere alienato. Il pensiero nomade, cercando di riformulare i paradigmi, intende essere una risposta alla «convocazione etica». Leggiamo alcuni passaggi di Levinas che ci permettono di fare il salto, oltrepassando anche il pensiero dell'identità di Heidegger. Scrive il filosofo ebreo-francese: “L'Opera è dunque una relazione con l'Altro, che è raggiunto senza dare a vedere di essere toccato. Essa prende forma al di fuori della "dilettazione morosa", dello scacco e delle consolazioni con le quali Nietzsche definisce il cristianesimo. Ma una partenza senza ritorno, che neanche però va nel vuoto, perderebbe ugualmente il suo orientamento assoluto, se andasse mendicando una ricompensa nell'immediatezza del suo trionfo, se, con impazienza, sospirasse il trionfo della sua causa. Il "senso unico" si convertirebbe in reciprocità. Confrontando la situazione iniziale con quella finale, l'Agente riassorbirebbe l'Opera in calcoli di disavanzi e compensazioni, in operazioni contabili. Essa si subordinerebbe al pensiero. In quanto orientamento assoluto verso l'Altro, in quanto senso, l'Opera non è possibile fuorché nella pazienza, la quale, spinta all'estremo, significa per l'Agente: rinunziare ad essere il contemporaneo del risultato, agire senza entrare nella Terra Promessa.

L'Avvenire a vantaggio del quale tale azione agisce deve porsi, di colpo, come indifferente alla mia morte. L'Opera, distinta al tempo stesso da giochi e calcoli, è l'essere-per-al-di-là-della-mia-morte. La pazienza non consiste, per l'Agente, nell'illudere la propria generosità dandosi il tempo di un'immortalità personale. Rinunziare ad essere il contemporaneo del trionfo della propria opera vuol dire intravedere questo trionfo in un tempo senza di me, guardare a questo nostro mondo senza di me, guardare a un tempo al di là dell'orizzonte del mio tempo: escatologia senza speranza per sé o liberazione nei confronti del mio tempo. Essere per un tempo che sarà senza di me, per un tempo dopo il mio tempo, oltre il famoso ‘essere-per la morte’; non è un pensiero banale, che estrapola la mia stessa durata, è il passaggio al tempo dell'Altro. Ciò che rende possibile un tale passaggio, non avrà nome eternità?” .

La prospettiva qui appena delineata, assicura un mutamento radicale di direzione, dall'ontologia all'etica; il «bisogno ontologico» ha una duplice valenza: da un lato io sono un essere-di-bisogno, al tempo stesso però ogni altro, in quanto anch'egli essere-di-bisogno, mi chiede di uscire dal mio isolamento dolente per preoccuparmi del suo dolore. L'etica oltrepassa l'ontologia. Più radicalmente, la gratuità mette in questione la necessità dell'identico. II bisogno ontologico è il bisogno dell'altro nell'ambivalenza del genitivo. In questa nuova ottica vorrei mostrare come il paradigma descritto dalla parabola evangelica del samaritano sia perfettamente leggibile e utilizzabile per una visione etico-antropologica, anche se ciò, a prima vista, può sconcertare il filosofo professionale. In questa parabola, infatti, è descritto con una puntualità che sconvolge l’incontro che cura.

Il desiderio della felicità è, secondo Aristotele, ciò che accomuna tutti gli uomini. Scopo dell'etica sarà quindi, come egli dice nell'Etica nicomachea, quello di raggiungere la felicità. All'eudaimoníá greca, la felicità come raggiungimento di uno stato di beatitudine, corrisponde nella visione ebraica e poi cristiana, il raggiungimento della vita eterna, una vita in cui il tempo diviene pienezza di compimento, tempo senza tempo, tempo compiuto. La vita eterna desiderata e cercata coinciderà quindi con il senso ultimo e intimo del proprio essere, il compimento di sé.

Questa breve premessa intende inquadrare le riflessioni di carattere antropologico ed etico che faremo a partire dal testo del Vangelo di Luca 10,25-37: la «parabola del buon samaritano». Il preludio è una domanda: «Maestro che debbo fare per ereditare la vita eterna?». Vale la pena sottolineare la relazione dinamica che viene istituita nella vita quotidiana intesa come esercizio per raggiungere il proprio telos. L'ortoprassi, l'agire etico sono la via. Gesù, coerentemente alla sua fede ebraica, rimanda alla Torah: «cos'è scritto nella Legge?». In due passi paralleli (Mt 22,35 e Mc 12,28), Gesù alla domanda sul comandamento più grande rimanda sempre a Lv., 19,18. Nella Torah dunque è scritto: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il prossimo tuo come te stesso». Nella conclusione di Gesù («Hai risposto bene, fa' questo e vivrai») è indicato il paradigma o, se si vuole, le coordinate per il compimento del senso dell'esistenza. Il livello conoscitivo intellettuale non è sufficiente per raggiungere il proprio senso ultimo, occorre «fare». Possedere la propria vita è l'atto di una responsabilità che «obbedisce» al comandamento. L'agire etico è quindi di fronte ai suoi elementi fontali auto-evidenti. Il primo in particolare: «Amerai il Signore Dio tuo» è l'assolutamente indiscutibile soprattutto perché è memoria di una signoria di Dio, unica garanzia etica: «Io sono il Signore». Che si debba amare Dio è quindi fuori discussione, appartiene alla dimensione del riconoscimento dell'assoluto ontologico-metafisico che ci costituisce nell'essere e soprattutto, biblicamente, ci mantiene nell'essere. Ciò che invece non è altrettanto autoevidente è il perché, il come amare il proprio prossimo e, soprattutto, «chi è il mio prossimo?». La parabola intende rispondere a questo interrogativo radicale che, in forma narrativa certamente, ribalta i paradigmi etici tradizionali e introduce, anche figurativamente, l'elemento della gratuità liturgica (in senso etimologico originale del termine) che si fa carico del malessere dell'altro attraverso la responsabilità.

Leggiamo ancora una volta il testo. «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall'altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite versandovi olio e vino; poi caricatolo sopra il suo giumento lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all'albergatore, dicendo: "Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più te lo rifonderò al mio ritorno". Chi di questi tre ti sembra sia stato (sia divenuto) il prossimo di colui che è incappato nei briganti? Quegli rispose: "Chi ha avuto compassione di lui". Gesù gli disse: "Va’ e fa’ lo stesso " » .

L'elemento narrativo che immediatamente risalta agli occhi è la strada. Quattro uomini in cammino, ciascuno con un'avventura esistenziale diversa. Da un punto di vista antropologico, la strada è una metafora fin troppo abusata per descrivere il percorso esistenziale e ciò nonostante mi pare importante insistervi. Non si tratta soltanto di una figura della vita; possiamo leggere nella metafora della strada anche lo stile nomadico dell'esistenza a cui si accennava; la ricerca di un senso che si incrocia con altri percorsi al punto che si può pensare il senso della propria vita come il risultato di queste intersezioni e delle risposte che in questi molteplici incontri vengono date. Il percorso esistenziale, come si accennava, è sempre un camminare-con. A volte il «con» si trasforma e allora il senso del nostro percorso, orientato da un intrinseco progetto teleologico da perseguire, si concretizza in incontri che costringono a decidere, fermarsi o passare oltre. In queste due forme verbali è delineata in nuce una fenomenologia dell'incontro nel suo aspetto positivo e in quello negativo, patologico, del rifiuto. Passare oltre è non-voler-incontrare.

Sulla struttura narrativa della strada si potrebbe parlare a lungo; dalla parabola ricaviamo almeno tre dati, tre tipi di incontri, di cui due mancati (quello con i briganti e quello con il sacerdote e il levita) e uno positivo, efficace (con il samaritano). L'uomo lasciato mezzo morto è ancora paradigmatico per un'altra lettura che, da un punto di vista antropologico è particolarmente rilevante: l'uomo che siamo e che abbiamo di fronte è sostanzialmente un essere di bisogno. Non possiamo qui insistere oltre su questo aspetto che, però permetterebbe di ridefinire l'antropologia e l'etica su nuove basi.

Cerchiamo ora di leggere brevemente i comportamenti dei personaggi che diventano paradigmatici per la riflessione etica, almeno nella direzione in cui ci stiamo muovendo. Il sacerdote e il levita percorrono la stessa strada, vedono il malcapitato, ma tirano dritto. La coscienza non è turbata, non si lascia mettere in questione, bisogna puntare diritti al proprio progetto senza distrazione. L'invocazione del bisogno dell'altro non può fermare il mio cammino che mira al perseguimento del proprio télos senza fratture. Il sacerdote e il levita “scendevano anch'essi”, quindi è molto probabile che venissero dal servizio al Tempio dove è possibile il ‘contatto’, l'incontro con Dio. II “passare oltre” del sacerdote e del levita si fa ancora più drammatico se lo si colloca nello spazio memoriale dell'Esodo, dove si narra di un altro “passare oltre”, quello dell'angelo sterminatore nella notte della pasqua in Egitto. La memoria della pasqua, memoria fondativa di sacralità e di libertà/liberazione, dovrebbe costituirsi come paradigma di benevolenza etica. Nella narrazione di Gesù sembra prefigurata la frattura tra comportamento morale ed esercizio religioso. Nell'insistenza con cui il testo fa notare che i due personaggi «vedono», ma non si fermano, si può ascoltare l'eco di Mt 25,31-46: “Signore quando mai ti abbiamo visto...?”. II vedere a cui qui si fa allusione è, innanzi tutto la capacità di accogliere il bisognoso e prendersene cura attraverso l’attitudine dell’attesa e dell’attenzione che abbiamo descritto precedentemente. Incontrare l'altro e nell'altro scorgere il comandamento etico che non si frappone a interruzione del mio cammino, ma si colloca quasi come pietra miliare che ne segna e disegna l’orientamento il mio cammino. Dal percorso isolato alla strada che si incrocia continuamente con altri percorsi tra cui bisogna riconoscere e costruire il proprio. Ciò significa che la meta non è già data da subito, è un percorso della libertà, percorso esodico continuamente in cerca di un senso nella dialettica tra l'essere in sé e rimanervi e l'uscire da sé in uno smarrimento che non ha però il sapore amaro della perdizione.

Anche il samaritano vede, ma non passa oltreodeuón, iter faciens), forse per affari, ma ciò che è accaduto in quella strada lo riguarda; si ferma e compie alcuni gesti paradigmatici: gli si avvicina ed è mosso a compassione, se lo carica e si prende cura di lui e, infine, investe del proprio denaro in maniera totalmente gratuita. Il primo gesto è segno dell'iniziativa personale, dell'interessamento, della disponibilità a lasciarsi interrompere e infine, della generosità. Solo se ci sono questi caratteri personali è possibile muoversi a compassione. Vale la pena notare che nel testo il verbo è espresso nella forma grammaticale passiva, ciò significa che la «compassione» è in qualche modo l'atteggiamento conseguente una provocazione che, a sua volta, suscita misericordia (éleos). La memoria del «discorso della montagna» è automatica (Mt 5,7): «Beati i misericordiosi perché avranno misericordia». L'essere mosso a compassione significa riconoscere nell'altro qualcosa che me lo assimila nella differenza (com'è suggerito dal termine greco), l'elemento accomunante di umanità che oltrepassa le distinzioni di razza, cultura, religione, o, meglio, le precede. Non si dimentichi che il samaritano è per gli Israeliti lo straniero eretico.

Avere compassione non basta, bisogna farsi carico, caricarsi delle sofferenze dell'altro. Rispondere all'appello dell'altro che incontro significa sollevare l'altro (epibibázo) e portarlo sulle nostre spalle. In tal modo ci si prende cura l'uno dell'altro. L'epiméleia, la cura, è per il filosofo un termine carico di un peso semantico incredibile. La epiméleia tes psyches, la cura dell'anima, è il messaggio platonico-neoplatonico fondamentale, trasmesso in eredità dal pensiero greco a quello europeo. Gesù qui indica invece la pista dell'uscire da sé per prendersi cura dell'altro che, si badi, è anche il recupero dell'ortoprassi giudaica, sempre attenta alla cura del povero, della vedova e dell'orfano, le categorie bibliche fondamentali del bisogno. L'aver cura va oltre l'immediatezza del bisogno presente, ma «investe per il futuro», per un tempo che può non essere il mio tempo e che quindi non posso ipotecare. Il tempo dell'altro che incontro come tempo del bisogno, acquista per me il senso di una temporalità che convocandomi mi oltrepassa, e in questo superamento il tempo dell'altro si produce come il risultato di una gratuità liturgica. Il mio tempo è il tempo che incontra l'altro come misura della propria temporalità.

Torniamo alla domanda finale di Gesù che sposta significativamente e in maniera decisiva quella del dottore della legge. Gesù domanda: “Chi dei tre si è fatto, è divenuto (ghegonénai) prossimo?”. II mutamento del verbo indica che la prossimità non è uno status tranquillo e acquisito, bensì piuttosto un continuo nascere alla prossimità. È prossimo colui che si fa prossimo e nel farsi prossimo si erediterà la vita eterna. Il Dio di misericordia lo si ama concretamente nell'essere misericordiosi. Dio-bontà vuole che si arrivi a Lui attraverso un'irrettitudine di percorso che è esercizio di bontà. Per questo si erediterà la vita eterna, per questo i due comandamenti sono simili. In una sorta di consequenzialità sillogistica, che ha tuttavia una cogenza etico-antropologica ben diversa, la consequenzialità tra farsi prossimo ed eredità, troviamo il senso profondo della parabola letta con attenzione ai gesti narrativi che nascondono una struttura da creare, ma non in teoria, bensì ancora una volta nell'ortoprassi, nella correttezza etica che esige una riformulazione antropologica: “va' e anche tu fa' lo stesso”.

Mediato dall’attitudine dell’attesa e dell’attenzione disponibile, dell’ascolto, ogni incontro può trasformarsi in incontro che si prende cura del bisogno dell’altro. È questo, mi sembra, l’esercizio più autentico della propria umanità.

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