A seguito della presentazione del libro Il Tumore non è un nemico imbattibile di Gianni Bonadonna tenutasi giovedì 12 dicembre 2013 presso l'Anfiteatro Pacini dell'Istituto di Anatomia Umana a Firenze riportiamo di seguito la riflessione del prof. Andrea Lopes Pegna a riguardo.
Pochi giorni fa insieme ad altri colleghi ho presentato agli studenti di medicina dell’Università di Firenze il recente libro “Il tumore non è un nemico imbattibile” di Gianni Bonadonna. Per primo ha parlato l’oncologo medico ricordando che Bonadonna oltre ad essere stato un insigne oncologo di fama internazionale si è sempre distinto per avere cercato di far fronte non solo alla malattia oncologica, ma soprattutto ai bisogni dell’ammalato di tumore. Sono stati ricordati i progressi dell’oncologia medica o meglio della medicina oncologica come preferisce chiamarla Bonadonna; grazie a questi progressi, anche se non si ottiene la guarigione del cancro, si può oggi comunque vivere più a lungo con questa malattia e con una qualità di vita migliore. Ho preso poi io la parola ricordando che mentre da un lato il nostro Paese è ai primi posti in Europa (vedi i recenti risultati dell’indagine Eurocare-5) per la sopravvivenza dei tumori con percentuali di guarigione che raggiungono il 55%, esistono però ancora tante persone che si ammalano di tumore e muoiono ancora oggi per questa malattia. Proprio perché il medico conosce la malattia e quasi mai l’ammalato, di fronte al fallimento per non essere riuscito a sconfiggere il cancro, non sa come rispondere ai bisogni del paziente che può porre tra l’altro anche domande dalla difficile, se non impossibile, risposta come «Perché a me?» (eterna domanda da Giobbe in poi) o «Se il mondo non ha senso per me, che senso ha il mondo? ». Si assiste così all’abbandono del malato da parte del medico “tecnico dell’arto” (come è chiamato da Salvatore Natoli) che lascia il posto allo psicologo “tecnico dell’anima” o alle sole cure dell’infermiere che comunque continua a prendersi cura di lui fino alla fine. Il medico quando non sa più “curare” (cure) la malattia può così fallire nel suo principale compito di “prendersi cura” (care) del paziente; compito questo che richiede necessariamente ancora di più la capacità di comprendere in modo empatico i bisogni dell’ammalato, fino ad aiutarlo ad affrontare anche gli ultimi giorni di vita, all’”altezza della propria morte” avendo “consapevolezza della propria finitezza”, senza sperare fino all’ultimo in una medicina miracolosa considerandola sempre come ultima chance (accanimento terapeutico o terapie alternative quantunque riconosciute inefficaci) al pari di come il credente considera la preghiera perché possa realizzarsi un miracolo (S. Natoli). Per ultimo è intervenuto il chirurgo oncologo che, come lo imponeva il suo ruolo, ha esaltato la tecnica della medicina moderna e i risultati da questa ottenuti in campo oncologico. Il chirurgo ha poi naturalmente criticato, da un lato, quanto era stato detto sulla buona morte perché l’ammalato di cancro non deve pensare ad una malattia che può portarlo alla morte ma deve avere oggi sempre la fiducia in una tecnica medica che è capace di sconfiggere il cancro; d’altro lato, ha ridimensionato la necessità che il medico sia coinvolto dal rapporto empatico coi bisogni del paziente perché compito del chirurgo deve essere soprattutto e solo quello, come freddo tecnico, di sapere estirpare il male perché se “di notte pensa troppo al suo paziente che deve operare al mattino successivo” rischia di non avere la lucidità indispensabile perché il suo intervento sia efficace.
Lo stesso problema della sofferenza e della malattia ha trovato così in questo incontro posizioni diverse e apparentemente contraddittorie; il male che può essere vinto grazie al potere della tecnica medica e quindi grazie alle capacità dell’uomo e il male che porta alla morte e che ribadisce invece la finitezza dell’uomo. Come Salvatore Natoli ha ancora ricordato in una recente trasmissione radiofonica (“Uomini e Profeti” del 15 dicembre 2013) esiste la “natura matrigna” e la “natura beatissima madre” come affermava Giacomo Leopardi; l’uomo da un lato non deve sentirsi onnipotente, ma nello stesso tempo deve saper amministrare la violenza della natura. L’uomo deve saper “vedersi nella totalità di questi due lati della natura e quindi commisurarsi al giuoco delle forze della natura, trovando in esse la sua precisa posizione” come sosteneva Barùch Spinoza.