Pubblichiamo il racconto/testimonianza di Giuseppe Mori, infermiere che presta la sua opera da molti e anni e che ha deciso di condividere con Laborcare una riflessione in merito al suo lavoro.
Non lo so.
Non so se capita a tutti i miei colleghi o se è un fatto personale. Se si tratta di deformazione professionale o se è la mia mente che deve farlo, ma spesso, o meglio quasi sempre, quando mi capita di vivere o di sapere un fatto grave, che coinvolge persone che conosco, mi viene da pensare ed immaginare come andrà a finire la “storia”. La so già, me la vedo passare davanti. Un po’ come quando, guardando un film o leggendo un racconto, ad un certo punto ti immagini chi sia l’assassino o come finirà la vicenda. Probabilmente ho un mente deduttiva, ma penso, molto più semplicemente, di cominciare ad avere una tale esperienza ed un carico di vissuto che “certe storie” so già come finiranno. E quasi sempre non ci sarà lieto fine.
Una di queste l’ho vissuta molti anni fa “ad inizio carriera”, quando lavoravo presso la neurochirurgia di Parma. Ero di turno ed una collega venne ricoverata “da noi”. Non era una collega qualsiasi, bensì una monitrice della Scuola Infermieri, una di quelle “caposala didattiche” che non più tardi di un paio d’anni prima mi aveva dato la “patente” di infermiere.
Aveva a quel tempo, se non ricordo male, 36 o 38 anni, ma al giovincello che ero allora sembrava già una signora, poi c’era l’aura di aver avuto (e di averlo ancora) un ruolo importante, nei miei confronti.
Era una sera d’inverno e su una strada ghiacciata, tornando a casa, aveva perso il controllo dell’auto ed era uscita di strada finendo in un campo. Risultato: trauma cranico e del rachide. Quando sono arrivato stava già seguendo “l’iter previsto” per casi di questo genere e mentre la stavano portando in radiologia, prendo le consegne e la vado a salutare (lo si faceva per tutti e lei era stata tra quelli che ci aveva insegnato quanto fosse importante l’accoglienza). Quando mi vide scoppiò a piangere pronunciando il mio nome, ma non disse nient’altro, e ricordo ancora il suo tono, confidenziale di chi aveva bisogno di trovare, di avere vicino un viso amico. Ricordo che mi sorprese, perché non era la monitrice con la quale avessi avuto particolari rapporti, non era la “mia” monitrice, quella della nostra classe, e non era nemmeno, che so … la Paola che era figlia di amici di famiglia con ci si ritrovava d’estate a S.Terenzo di Lerici, non era quella con la quali avevo condiviso battaglie sindacali, ecco perché mi sorprese quel tono. No, non era quello il tono di chi ti considera un conoscente. Ricordo perfettamente come allungò le braccia per avere un contatto, come volesse abbracciarmi, era come chi sta annegando ed ha bisogno di un appiglio. E aggiunse un “non lasciarmi sola”. Era sera inoltrata, quasi notte ormai e quindi, come spesso accadeva, c’era il bisogno di accompagnare i pazienti in radiologia e così feci, quando arrivarono il medico e il tecnico di radiologia reperibili. Non è bello dirlo e nemmeno etico farlo, ma quando seppero chi era le fecero la “batteria completa di esami”, anche quelli non necessariamente urgenti che, di norma, venivano eseguiti nelle ore diurne, evento così eccezionale che il radiologo rivolto al neurochirurgo si sentì in dovere di puntualizzare: “Non ti ci abituare. È per lei. Da domani si ritorna allo standard” e lui gli rispose un laconico: “lo so.” Era mezzanotte circa quando in una cabina radiologica al buio, illuminata solo dallo schermo, quando vedemmo il liquido di contrasto salire il canale midollare, lentamente, sempre più in alto. Il tratto sacrale, poi quello lombare, quello toracico e poi… puf, uno “sbuffo”, una “nuvoletta scura” che si espanse e non saliva più. “Noooo” sussurrò il neurochirurgo, “e la Madonna!” esclamò, sempre con tono bassissimo. Il radiologo: “Lo vedi? Sta uscendo dal canale midollare vuol dire che…” già vuol dire che non c’era stato un trauma contusivo da schiacciamento o da stiramento, ma il colpo era stato così forte da provocare una lacerazione della membrana che avvolgeva il midollo spinale e il liquido di contrasto stava uscendo. Lì di colpo sapevo già che film avremmo visto e quale sarebbe stato “il finale”: una bella funzionale, leggera, snodabile carrozzina. Perché era fin troppo chiaro anche ad un quasi neodiplomato come me che Cristina non avrebbe mai più camminato e in quella sera d’inverno la sua vita non sarebbe mai più stata la stessa. Vedevo chiaramente cosa sarebbe successo e cosa l’ aspettava. L’avrebbero operata per stabilizzare la colonna vertebrale e darle la possibilità di rimanere seduta, poi avremmo dovuto gestire o cercar di gestire, la “sindrome da suicidio”, che si affaccia quando il paziente si rende conto di come sarà la sua vita, avremmo avuto un paio di giorni, quelle quarant’otto ore in cui speri che i sintomi regrediscano perché ti hanno detto che: “sa prima che l’edema, il gonfiore, dovuto alla botta, non regredisce non possiamo dirle niente.” Spesso una piccola bugia per un paio di giorni di flebile speranza. In questo caso una grande bugia. Il “film” era chiarissimo. Lei poi non aveva neanche bisogno di spiegazioni, era lei che mi aveva insegnato l’assistenza al paziente paraplegico. A tutto questo si aggiungeva la prevenzione dei decubiti: gli ausili, la mobilizzazione e il trasferimento presso una unità di riabilitazione midollare, per imparare ad usare le sue nuove gambe rotonde, i passaggi e i trasferimenti e poi la vescica neurologica e le evacuazioni programmate e stare attenta alla dieta… Avrebbe anche dovuto pensare a risistemare la sua casa per la nuova situazione. Era una donna e quindi oltre ai problemi di mobilità, c’era la necessità di poter cucinare o fare il bucato, e non si riesce a farlo da seduti se non si adattano i mobili della cucina o del bagno. Infine sarebbe arrivato anche il momento di affrontare “l’argomento tabù”, quello che, per nostra enorme fortuna sarebbe toccato ai colleghi e alle colleghe della riabilitazione, vale a dire la parte affettiva: la vita di coppia, l’amore, il sesso... Fine. Chiuso. Stop. Bye bye baby. No hai magnana. No. Non è che sei diventata brutta, deforme sei sempre quella di prima una giovane donna, normalmente bella, ma cosa vuoi farci se dal diaframma in giù non senti più niente? Allora non lo vidi perché ero giovane. Ma c’era da aspettarselo quel quadro: il tuo compagno se ne vada o se non ha il coraggio ti starà accanto, ma spesso avrà una doppia vita. È normale, non c’è nessun giudizio morale, è solo sopravvivenza… E tu? Se resterà non avrai mai il dubbio che lo stia facendo per senso di colpa o pietà?
Tempo dopo venni a sapere che lei lo aveva lasciato, aveva deciso lei.
Pensavo a tutto questo quella notte e come in un film quasi potevo vederne le immagini e la realtà, poi non fu così diverso.
Mi capita spesso e non è per niente divertente sapere quasi sempre come va a finire il film e sempre più spesso mi ritrovo a non sperare nemmeno più in un finale diverso, perché comunque ho imparato che l’ “happy end” è solo nei film di Hollywood.
In pratica questo mestiere, talvolta, ti “toglie” anche la speranza. A volte ti vuoi illudere, il tuo cuore cerca dei segnali a tutti costi che smentiscano ciò che la ragione ha già capito. Fai finta di non sapere che non basta un miglioramento dovuto alle cure, e pensi che il cancro stavolta non ce la farà, o che lui o lei gli staranno vicino e non l’abbandoneranno, non cederanno alla vita, il loro amore è e sarà più forte di tutto questo, che in fondo potrà avere “una vita normale”, potrà lavorare, incontrerà persone, potrà anche fare sport…
“Nonostante i miei quasi 25 anni d’ospedale e nonostante quello che ci è stato comunicato, dentro di me inizia a farsi spazio un sogno, che Ivan sia l’eccezione che conferma la regola.” (Dal libro “AFAGNISTAN AGFANISTAN AFGANISTAN” Floppy - in arte Andrea Filippini).
Come è andata a finire? Provate ad indovinare.
“E anche se il film te l’aspettavi con un altro finale E se qualcosa in fondo è andato male qui. Qui non è Hollywood” - Negrita
Per carità spesso la vita vince, il mondo è pieno di gente che davvero riesce ad avere comunque un esistenza vera, piena, che comunque ne valga la pena di vivere, anche se su due ruote, e per fortuna ogni giorno ci sono malati di cancro che guariscono e non è detto che un diabetico finisca per forza in dialisi o amputato, ma sarà che ho deciso di fare sempre professione di realtà ma ogni giorno che passa, anche se questo periodo storico cerca di convergerci del contrario, faccio sempre più fatica a credere che qui sia Hollywood.