Etnonursing: dall'esperienza ai presupposti teorici

Autore tesi: 
Tiziana Benedetti
Anno accademico: 
2010/2011

Pubblichiamo di seguito l'abstract della monografia di Tiziana Benedetti, studentessa di Scienze Infermieristiche, intitolata: Etnonursing: dall'esperienza ai presupposti teorici.

Alla fine del 2003 è stato siglato un accordo di cooperazione sanitaria tra il ministero della Sanità Eritreo, la Regione Toscana, l’Azienda Ospedaliera Meyer, l’Azienda Ospedaliera Universitaria Careggi e la Facoltà di Medicina dell’Università di Firenze che prevedeva interventi di cooperazione sanitaria volti a rafforzare le cure ospedaliere e specialistiche con l’obiettivo di avere una vasta ricaduta sul sistema sanitario eritreo. Il progetto prevedeva interventi di formazione mirati, rivolti al personale medico e infermieristico locale, da attuare sia con insegnamenti teorici (lezioni frontali, seminari, workshops), sia con insegnamenti pratici bed-side. Il progetto definitivo denominato “Firenze-Asmara Km 0” era articolato in più parti e comprendeva l’attivazione del Dipartimento di Emergenza e Accettazione e delle attività cliniche specialistiche correlate (Rianimazione, Ortopedia, Chirurgia generale e Urologia) all’ospedale Orotta di Asmara. La realizzazione pratica del progetto, durata 13 mesi, è stata assegnata al personale dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Careggi di cui faccio parte ed è iniziato nel luglio 2006. La mia permanenza ad Asmara è stata di due mesi e mezzo, suddivisi in due periodi rispettivamente di 30 e 45 giorni.

ASSISTERE IN UN CONTESTO “DIVERSO”
L’assistenza infermieristica, a differenza di quella medica, si fonda principalmente sull’accudimento. Accudire vuol dire prendersi cura della persona, non solo con l’intento di alleviare disagi/sofferenze fisiche, ma anche e soprattutto farsi carico del suo stato psicologico: capire le sue paure, le sue difficoltà nel comprendere cosa sta accadendo, aiutare la persona assistita a “sentirsi sollevata” dal peso che la malattia rappresenta dal punto di vista fisico, relazionale, sociale. L’infermiere, quindi, non si limita a fornire delle prestazioni tecniche, ma condivide i bisogni del proprio paziente e cerca di rispondervi attraverso la pratica clinica, il dialogo, il supporto emotivo: utilizza cioè, necessariamente, un approccio olistico. Non è infatti possibile parlare di assistenza infermieristica facendo riferimento solo a semplici prestazioni tecniche, per quanto queste possano essere elaborate e di alto livello.
Proprio per questo motivo è fondamentale, per l’infermiere, stabilire con il proprio assistito un rapporto molto stretto, basato sulla comprensione totale dei bisogni del paziente stesso e sulla reciproca stima.
Premesso ciò, risulta chiaro che un tale tipo di rapporto risulta di difficile attuazione quando davanti a noi troviamo una persona che “non riconosciamo” come parte del nostro mondo. Lo straniero è diverso da noi per caratteristiche fisionomiche, atteggiamenti, lingua, colore della pelle, vissuti personali, ricordi, desideri, ecc.
Il primo elemento di disturbo che interviene quando ci troviamo ad assistere una persona di diversa cultura è il pregiudizio, inteso nella sua definizione più semplice di “giudizio precedente all’esperienza o in assenza di dati empirici”[1].
Di fronte al pregiudizio vengono attuate tutta una serie di azioni di salvaguardia personale che portano alla chiusura e impediscono l’instaurarsi del rapporto di assistenza.
Assistere uno straniero in Italia, secondo me, scatena più facilmente una risposta di questo tipo; infatti in questo caso la visione etnocentrica dell’infermiere è favorita dal contesto in cui opera: è il suo ambiente, quello in cui tutti sono uguali a lui e pensano e agiscono come lui.
La cosa è leggermente diversa quando andiamo ad assistere le persone nei loro Paesi. In questo caso diventa difficile sentirsi “sostenuti” dall’ambiente circostante perché i diversi siamo noi!
Dall’analisi della mia esperienza di cooperazione internazionale in Eritrea, nel progetto di cui nell’introduzione, ho cercato di evidenziare gli elementi che favoriscono il cambiamento e l’apertura verso la differenza e, conseguentemente, l’arricchimento professionale e personale che ne derivano.
Provando a fare una rilettura del mio vissuto nell’ottica della teoria di M. Leininger [2] ho identificato le tre modalità fondamentali di attuazione dell’assistenza :
1. la conservazione/mantenimento della culture care;
2. l’adattamento e/o il negoziato della culture care;
3. la ristrutturazione o riformulazione della culture care.

1. CONSERVAZIONE/MANTENIMENTO
Nel primo periodo di permanenza ad Asmara, mi sono trovata di fronte delle persone con vissuti a me totalmente sconosciuti e, conseguentemente, anche con bisogni a me ignoti!
Lavorando in Pronto Soccorso, a Firenze come ad Asmara, il mio primo istinto è stato quello di passare sopra a queste incomprensioni e concentrarmi su bisogni palesi. Pensavo, sbagliando, di poter assistere curando il sintomo. Ma ho capito fin dai primi momenti che non poteva funzionare, perché l’importanza, il peso che veniva dato da me ad ogni singolo problema erano diversi da quelli percepiti dalla persona che avevo davanti. In questa fase ho dovuto fermarmi ad osservare. Osservavo i pazienti, ma osservavo anche gli infermieri asmarini che, seppur ancora tecnicamente carenti in fatto di infermieristica d’emergenza, riuscivano però a dare risposte ai bisogni dei loro concittadini in una maniera decisamente superiore alla mia. Il mio bagaglio di esperienza era inutile come é stato inutile tentare di rianimare una giovane ragazza che stava morendo per emorragia dopo essersi procurata un aborto perché non sposata...ma io non riuscivo a capire e ad accettare la pacatezza e la rassegnazione dei miei colleghi africani che mantenevano i soliti ritmi anche di fronte a questa evenienza e, soprattutto, non provavano la mia stessa rabbia!
E’ stato un periodo difficile perché ogni giorno dovevo fare i conti con la mia inadeguatezza, vedevo sgretolarsi le mie certezze e sentivo nascere in me il seme del pregiudizio. Il primo mese della mia permanenza in Africa è passato così: ad osservare e vincere la mia voglia di far cambiare gli altri.

2. ADATTAMENTO/NEGOZIAZIONE
Dopo un mese passato a cercare di capire il perché delle azioni e i bisogni di chi mi trovavo di fronte sono finalmente riuscita ad entrare in contatto con la diversità. Lavorando al fianco dei colleghi asmarini ho cominciato a capire il loro concetto di priorità . Abbandonando piano piano i miei vissuti sono riuscita a “mediare”, ovvero a riconoscere dei vissuti diversi dai miei e a porli sullo stesso piano di valori, in modo da poter aprire un canale di comunicazione. In pratica, lavorando in parallelo con gli infermieri locali, rispettando regole e valori che loro stessi rispettavano ho potuto entrare a far parte del loro mondo e, di seguito, di quello dei nostri assistiti. Non ero più “diversa” perché riuscivo a capire, ad esempio, l’importanza di farmi indietro e lasciare un moribondo tra le sue persone significative, piuttosto che continuare a girargli intorno per fornire delle cure che avevano importanza solo dal mio punto di vista di infermiera italiana. Ma fare questo comportava anche apertura nei miei confronti tanto da essere invitata a prendere parte a queste “veglie”; la sensazione di appagamento professionale che deriva da una tale dimostrazione di gratitudine è difficilmente paragonabile, almeno per me, in una esperienza lavorativa classica, anche in un ospedale come quello in cui lavoro, definito di secondo livello!

3. RICAMPIONAMENTO/RISTRUTTURAZIONE
Questa fase posso dire si sia realizzata solo durante il mio secondo soggiorno ad Asmara. In questo periodo abbiamo iniziato la formazione vera e propria del personale locale e ciò è stato possibile solo ed esclusivamente perché nel periodo precedente erano state poste le basi per l’integrazione. Una volta scoperto il meccanismo per mantenere aperto il canale comunicativo è stato possibile far passare messaggi che favorissero il cambiamento nei comportamenti delle persone con le quali dovevamo relazionarci.
Per quanto mi riguarda, questo è stato il periodo della mia maggiore crescita personale e professionale. Ho iniziato l’esperienza in un’ottica totalmente diversa; ciò che vedevo o percepivo della realtà circostante non mi sembrava più strano, era solo diverso da quello che vedevo a Firenze. Anche dal punto di vista dell’assistenza che riuscivo a fornire posso dire che erano stati fatti dei notevoli passi avanti: ora riuscivo a capire quasi sempre qual era il bisogno principale della persona che dovevo assistere e fino a dove potevo spingermi nel farlo e quando dovevo ritirarmi e stare ad osservare in maniera attiva ciò che accadeva intorno a me.

DIFFICOLTA’ OGGETTIVE NELL’ASSISTENZA TRANSCULTURALE

I PREGIUDIZI
Dal punto di vista sociologico ed antropologico, i pregiudizi nascono dal bisogno che ognuno di noi ha di “sentirsi parte di un insieme omogeneo di persone legate da scopi comuni, da una comune visione del mondo e dalla stessa concezione del bene e del male”[3]. In definitiva il senso di appartenenza garantisce protezione. Tutto ciò che può minacciare la nostra sicurezza viene allora visto come estraneo al gruppo, negativo. Dall’estremizzazione di questo concetto scaturisce l’etnocentrismo.
Anche se chi parte per una missione umanitaria porta con sé i migliori propositi, è molto facile, una volta arrivati, cadere nell’errore del pregiudizio, poiché ad attenderci ci sono solo cose nuove, sconosciute e potenzialmente pericolose e il nostro rassicurante reparto è lontano.

MANCANZA DI CONOSCENZE
La mancanza di conoscenze non riguarda solo gli aspetti tecnici della professione (ad esempio trovasi a lavorare in sala operatoria o in rianimazione senza averlo mai fatto, ecc), ma soprattutto, fa riferimento alle scarse conoscenze circa le problematiche locali (usanze e costumi della popolazione, pericoli legati ad eventuali guerre in atto, malattie endemiche, ecc).

LINGUA
La lingua rappresenta la prima barriera che i ferma quando arriviamo in un Paese straniero. Anche se è possibile avvalersi della lingua inglese come lingua internazionale, in realtà non è così semplice capire e farsi capire. Infatti, ammesso che ci troviamo ad operare in un posto dove, oltre agli altri operatori, anche la popolazione locale conosce l’inglese, in realtà non sempre l’inglese parlato da persone non madrelingua è facile da comprendere e comunque muoversi in un Paese in cui viene parlata una lingua che non conosciamo rallenta il nostro processo di adattamento.

DIFFICOLTA’ DI ADATTAMENTO ALLO STILE DI VITA
Per quanto si possa essere abituati a viaggiare, trovarsi in un posto con abitudini di vita quotidiane diverse dalle nostre comporta disagio. Il clima, il modo di vestire, l’alimentazione, sono elementi che vissuti per periodi più prolungati possono rappresentare ostacoli notevoli per la vita del “cooperante”.

SOLITUDINE
Arrivare in un Paese che spesso non si conosce per niente, entrare in rapporto con persone di un’altra cultura, con altri valori e altre esigenze, può scatenare un profondo senso di solitudine. Questa solitudine è anche aggravata dal fatto che quando ci troviamo davanti ad un compito difficile e impegnativo, abbiamo bisogno del supporto del proprio gruppo di appartenenza (come le squadre sportive che fanno una competizione o gli studenti che preparano un esame!). L’infermiere che va a fare cooperazione internazionale anche se non è solo nel vero senso della parola, perché, comunque, si muove con altri colleghi, nella pratica vive, almeno in parte, la sua esperienza in solitudine. E’ solo quando si confronta con le proprie paure, i propri pregiudizi, la propria vulnerabilità.

ASPETTI GRATIFICANTI DELL’ASSISTENZA TRANSCULTURALE

ACQUISIZIONE NUOVE CONOSCENZE
L’esperienza di cooperazione internazionale arricchisce il nostro bagaglio di conoscenze da tutti i punti di vista: teorico, pratico, relazionale, ecc.
Così come ci portiamo a casa delle nuove consapevolezze dopo un viaggio per turismo, anche e maggiormente nel nostro caso, la permanenza in una cultura diversa dalla nostra ci arricchisce di un notevole bagaglio di conoscenze. Impariamo principalmente a capire noi stessi attraverso gli altri. Acquisiamo il concetto di solidarietà che sentiamo sempre nominare come elemento astratto e sempre dando per scontato che si tratti della solidarietà dei più forti nei confronti dei più deboli; ma in questo caso verifichiamo che è vero anche il contrario, poiché essere accolti ed integrati in un gruppo sociale diverso dal nostro è un atto di solidarietà nei nostri confronti!

VALUTAZIONE DELLE PROPRIE CAPACITA’ TECNICHE
Operare in un contesto spesso meno sofisticato di quello abituale, con mezzi più modesti e senza il supporto del nostro solito gruppo di lavoro può rappresentare un test sulle nostre effettive competenze; tali competenze, inoltre, non solo vengono testate sul campo, ma sono anche accresciute sia perché in cooperazione internazionale si entra in contatto con professionisti provenienti da varie parti del mondo che hanno, quindi, competenze estremamente diversificate, sia perché spesso ci si trova a lavorare in situazioni in cui la carenza di tecnologia deve essere sopperita dall’ingegno: il metodo induttivo si sostituisce al metodo deduttivo.

RISCOPERTA DI SE STESSI
L’aspetto fondamentale dell’esperienza di cooperazione, a mio avviso, è però rappresentato dalla nuova visione del mondo che possiamo acquisire; da tale nuova visione nasce anche un nuovo approccio con la propria identità e la riscoperta dei propri valori e delle proprie certezze. Il confronto con culture diverse ci permette di ritrovare lati della nostra personalità che si erano assopiti nell’immedesimarsi nel gruppo. Se il gruppo non c’é noi torniamo fuori!

CONCLUSIONI
L’esperienza della cooperazione internazione rappresenta un elemento di grande accrescimento professionale e personale per gli infermieri. Per quanto mi riguarda, è stato come fermare improvvisamente la mia vita per guardare indietro e recuperare qualcosa che avevo perso. Non so esattamente cosa sia quel qualcosa, ma posso affermare che al mio rientro non ero più la stessa: mi sentivo meglio in mezzo agli altri, sul lavoro e fuori e, inaspettatamente, riuscivo anche a capire meglio i bisogni delle persone appartenenti al mio gruppo sociale.
Ovviamente anche questa medaglia ha il suo rovescio. Dopo aver lavorato con la sensazione che ciò che facevo fosse effettivamente molto utile al prossimo, tornare a lavorare nel mio reparto non mi è sembrato più molto gratificante. Il mio lavoro in Africa aveva un valore molto superiore al mio lavoro a Firenze, dove spesso mi trovo ad erogare delle prestazioni che , in alcuni casi, oltre ad essere meccaniche e ripetitive sono anche superflue.

BIBLIOGRAFIA
[1] P.A. Taguieff – “Il Razzismo – Pregiudizi, teorie, comportamenti” – R.Cortina Editore 1999
[2] M. Leininger – “Infermieristica Transculturale” – Casa Ed. Ambrosiana
[3] B.M. Mazzara – “Stereotipi e pregiudizi” – Il Mulino 2009

E-mail: 
info@laborcare.it
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