Riportiamo di seguito una riflessione di Flavio Gheri e Lara Panieri, rispettivamente Infermiere ed Educatrice della R.S.D “La Ginestra”.
Ci sono setting dove l’assistenza viene spesso standardizzata, unità operative dove riesci a cogliere veramente l’unione della famiglia e dei sanitari che si stringono attorno alla persona cara che in quel momento sta soffrendo ed alla fine speri sempre, come professionista, di poter dare il tuo contributo grande o piccolo che sia. Il mio ambito non funziona del tutto così e ciò che lo rende unico sono le persone che lo rendono vivo. Gli assistiti che fanno parte della mia vita professionale non sono come quelli che io definisco “take away” come spesso sono considerati oggi giorno quelli ospedalieri, dove la cura deve essere sinonimo di velocità e questo perché, nel mio caso, sono ospiti prima di essere assistiti, nel vero senso della parola in quanto per molti di loro, la struttura, è come se fosse una casa. Potremmo già fare una piccola, ma importante riflessione. Spesso capita di vedere gli assistiti come persone che entrano nella nostra realtà, ovvero in quella ospedaliera, ma in questo caso, in verità siamo noi operatori che entriamo all’interno della loro vita quotidiana ed in molti casi questo deve essere fatto in punta di piedi. Non sempre la giornata può essere impostata allo stesso modo, poiché ci può essere sempre l’eventualità che qualcosa vada ad intaccare il già precario equilibrio. Ogni giorno quindi è come riprendere tutto dal principio e non puoi assolutamente fermarti all’apparenza, ma devi andare oltre e non è il tuo ruolo che te lo impone, ma bensì sono loro che te lo chiedono. Interpretare un gesto, una frase, un loro movimento è tutto. Questo perché, per questi assistiti, potrebbe essere anche una richiesta di aiuto, un lamento per un qualcosa che non va. Alle volte mi chiedo se le mie interpretazioni siano corrette oppure no, se quello che faccio è giusto oppure può andare a peggiorare notevolmente la situazione. Credo però che non ci sia nessun collega o nessun coordinatore che può darti una risposta simile, ma sono gli stessi ospiti che attraverso le loro parole e i loro atteggiamenti riescono a farti capire se la strada intrapresa è quella giusta oppure no. Questo perché ovviamente dobbiamo mettere in campo prima di tutto la relazione, parte fondamentale della nostra professione, senza mai scordarsi dell’unicità della persona che abbiamo di fronte, il quale come ogni essere umano offre a noi interlocutori le proprie reazioni, perplessità e debolezze. Spesso capita di ascoltare, da chi si definisce un “operatore datato”, quelle che sono le storie uniche che hanno vissuto i nostri ospiti. In questi momenti mi viene da pensare che alla volte ci lamentiamo per delle cose futili ed incomprensibili e che a differenza di molti altri, molto probabilmente siamo stati veramente fortunati. Non credo che il mio possa essere definito come un ragionamento scontato, purché esso sia compreso sino in fondo. Non è banale fermarsi a riflettere su questo punto di vista, quando se ne comprende realmente il significato. Capita così di parlare di decisioni terapeutiche da intraprendere e domandarsi se la strada scelta sia quella giusta, ma alle volte credo sia normale domandarsi se è quello che l’altra persona vuole veramente. Già, perché capita spesso di dire ”non è in grado di capire o comprenderne il reale significato”, ma alla fine non credo sia così vero e a tal proposito nella maggior parte dei casi credo sia giusto soffermarsi un attimo e cercare di capire se il nostro “voler far del bene” coincide con il bene dell’assistito. Capita poi di sentirsi come in una grande famiglia, dove ogni tuo atteggiamento sai che potrebbe andare ad influenzare gran parte delle persone in positivo o in negativo, ma questo fa parte della vita vissuta all’interno di una residenza dove, come dicevo inizialmente, l’assistito viene vissuto pienamente. Questo avviene specialmente quanto i tuoi assistiti sono dei disabili (o diversamente abili o abili con abilità diverse come vari termini vanno a definire la loro situazione). Già, un mondo tutto a se, dove non esistono delle regole ben precise o standardizzazioni, dove ogni giorno è diverso da quello precedente e dove il modo di approcciarsi deve essere spesso modificato perché quello utilizzato un’ora prima non è più efficace. Spesso nel percorso di formazione ti preparano a fare di tutto, anche le cose più strane ed impensabili, ma non c’è nessuna lezione o nessun corso che ti prepari ad assistere una persona disabile. Così ti “rimbocchi le maniche” ed allo stesso tempo trasformi ogni loro atteggiamento in una lezione, rendendoti così conto che i veri professori in questa esperienza sono proprio loro. Spesso però ti fermi a pensare e capisci che tutto questo non è solo utile a migliorarti professionalmente, ma anche umanamente ed ecco che poco alla volta torna il discorso precedentemente affrontato. Questo perché credo che ogni esperienza, sia come una palestra di vita, ma quando ti rapporti con delle persone così speciali non puoi far altro che arrenderti alla chiara evidenza che nella vita, anche la persona più impensata può sempre insegnarti qualcosa di nuovo e di speciale. A breve, molto probabilmente, diventerò anche io un dipendente del “take away” e se da un certo punto di vista mi rende felice, perché va a coronare il mio sogno di lavorare per un’azienda ospedaliera, dall’altra mi rende triste e non solo perché non avrò più la possibilità di creare un rapporto così bello ed unico con uno o più assistiti, ma anche perché difficilmente troverò persone come loro che mi aiuteranno veramente a crescere ed a capire cosa voglia fare da grande.