Segnaliamo il dibattito che si sta svolgendo, dai primi giorni di settembre fino ad oggi, sulle pagine de La Repubblica e che affronta il tema dell'umanità del medico all'interno degli ambienti di cura. Vogliamo evidenziare in particolar modo le risposte del Dott. Andrea Lopes Pegna e di Corrado Augias, in risposta alla lettera che ha scatenato la discussione.
Lettera a La Repubblica del 5.09.2013
Quanto cura l’umanità del medico
Caro Augias, la coincidenza tra i casi di malasanità e i test di ingresso alla facoltà di Medicina interroga sull’esistenza di un metodo per misurare l’umanità degli aspiranti medici. Chi sa solo di medicina, non sa niente di Medicina. Un uomo di mezza età muore lentamente di cancro, riflette sulla vita, riceve visite di dottori afasici, l’unico a dargli un po’ di calore umano è il servo Gerasim: è il plot de La morte di Ivan Illic, racconto di Tolstoj, mirabile esempio di Medicina Narrativa, parte delle Medical Humanities, con psicologia, diritto, filosofia, varie scienze umane. Discipline che dovrebbero entrare nella borsa del medico, tra abbassalingua e stetoscopio. Non c’è un test per misurare l’umanità dei dottori, ma ci sono testi che possono stimolarla. Nei concorsi universitari si tiene conto dell’impact factor, indice ricavato dalle pubblicazioni scientifiche del concorrente. Credo che si dovrebbe valutare anche l’empathy factor., la capacità di “capire” il paziente. L’empatia è una facoltà la cui la cui efficacia sul paziente è misurabile; la Medicina Narrativa può contribuire ad aumentarla. Le Medical Humanities richiamano al dovere di essere abili di rispondere al bisogno dei propri simili.
Gabriele Bronzetti, cardiologo, Bologna
Lettera a Repubblica pubblicata il 14.9.13
Caro Augias, mi sento sollecitato ad intervenire alla lettera del collega “quanto cura l’umanità del medico” facendo per prima cosa una denuncia: un caro amico è deceduto pochi giorni fa in un ospedale fiorentino per una leucemia soffrendo nelle ultime ore di vita di tali dolori che la moglie mi ha confessato che se avesse potuto avrebbe soffocato col guanciale il marito per aiutarlo a cessare questa pena. Alle richieste di fare qualcosa per non farlo soffrire si è sentita rispondere da un infermiere che non poteva somministrare oppiacei dicendo “non vorrà mica farlo diventare tossicamane!”; dopo poche ore è deceduto. Quantunque si parli di ospedale senza dolore come del resto è così sancito anche da una legge (L. 38/2010) questo episodio, che spero veramente isolato, fa capire quanto sia lunga ancora la strada da percorrere. Basti, a questo proposito, pensare che la facoltà di medicina sforna medici che non conoscono minimamente cosa si intende di cure di fine vita, di autodeterminazione delle scelte in ambito sanitario, senza conoscere l’importanza fondamentale di cercare di istaurare sempre con l’ammalato un rapporto empatico che, in tanti anni di professione medica, ho potuto apprezzare per il suo valore veramente terapeutico. Mi occupo di oncologia polmonare e so che su dieci ammalati ai quali faccio diagnosi di cancro del polmone se ne potranno salvare 1 o 2 al massimo; come potrei aiutare queste persone se non cercando di mettermi sempre nei loro panni per vivere direttamente le loro sofferenze? Nella mia stanza di ospedale ho appeso un quadretto con scritto in ebraico “Lev sciomea” (I Re 3,9) che tradotto significa “un cuore che ascolta” per ricordarmi sempre quale sia il mio compito quotidiano con l’ammalato ogni volta che entro in ospedale, Andrea Lopes Pegna
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Risposta di Corrado Augias
Il 3,9 del primo libro dei Re dice: « Concedi [Signore] al tuo servo un cuore docile perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e distinguere il bene dal male». È la preghiera di Salomone appena succeduto a David. Un cuore docile, un cuore che ascolta. Nella stanza di un medico, quel versetto acquista un significato laico di dedizione al proprio lavoro. Questo giornale, anche grazie all’impegno di Mario Pirani, s’è battuto perché si facilitasse l’uso di antidolorifici nell’ospedale. Il crudele infermiere fiorentino non ha ascoltato il messaggio né ha rispettato la legge. La lettera del dottor Bronzetti sulla Medicina Narrativa, che ha aperto questa discussione ha avuto vasta eco. Scrive il dottor Oriano Mecarelli: «Mi occupo di diagnosi e cura dell’Epilessia, diffusa malattia neurologica non facile da “curare”. È quindi fondamentale che il medico aiuti il paziente a parlare sia per l’inquadramento diagnostico sia per l’esito della terapia. Tutto questo non si stimola né si insegna! Maria Vaccarella ricercatrice italiana esperta in Narrative Epileptology dove lavora? Al King’s College di Londra! ». Scrive il Prof. Marco Ingrosso, sociologo della salute: «La buona cura è data da una miscela di assistenza affettuosa e terapia responsabile. Qualora non si combinino queste due dimensioni abbiamo una cura distorta, insoddisfacente. Restituire alla cura la sua pienezza non risponde solo a ragioni “umanitarie”, avvia una nuova etica, può dare maggiore efficacia alla terapia, volta non solo alla guarigione, ma anche a promuovere il benessere, la resilienza (capacità di affrontare le difficoltà), la dignità».