Vogliamo segnalare l'articolo "Come si racconta il dolore?" presente sul blog mrjoneswords. In questo post vengono descritte tre opere letterarie di tre autori diversi, ma accomunate dallo stesso tema trattato.
Gli ultimi mesi del 2012 hanno portato con sé la lettura di tre libri legati tra loro da un tema (non l’unico all’interno dei singoli libri ma, a mio parere, il principale): il dolore. Tre libri che non sono romanzi puri ma raccontando storie vere pongono lo scrittore al centro del racconto. Il dolore è quello per la perdita di una persona cara, o comunque vicina. Quella dolorosissima di un figlio, raccontata in Tout les enfants sauf un (“Tutti i bambini tranne uno”, in italiano) di Philippe Forest, quello della cognata (qui la storia è un po’ più complessa non essendoci un rapporto stretto tra l’autore e il soggetto del libro), ma, prima ancora, della perdita della figlia da parte di due genitori durante lo tsunami del 2004, come racconta Emmanuel Carrère in D’autres vies que la mienne (“Vite che non sono la mia”, in italiano) e quella del proprio marito raccontata da Joan Didion in L’anno del pensiero magico. Tre libri capitati sotto mano per puro caso (se vogliamo credere che i libri si comprino o si leggano “per caso”).
Il 24 gennaio del 2011 mia figlia doveva ancora nascere, ma la mia ex compagna era in ospedale, ricoverata e quasi pronta al parto. Quella sera ero solo a casa e mentre mi giravo nel letto pensando a quello che sarebbe diventata la mia vita da lì a poco decisi di provare a leggere qualcosa per stancarmi. Non so quale fu il motivo che mi spinse a scegliere, tra tutti i libri che avrei voluto leggere, “Tous les enfants sauf un” di Forest, uno scrittore francese che da noi era pubblicato da Alet e del quale avevo comprato qualche libro durante un viaggio in Francia di un paio di mesi prima.
Di Forest ne avevo letto molto bene e me ne aveva parlato altrettanto bene, qualche anno prima, un amico di quelli di cui ti fidi ciecamente quando ti consigliano libri. Ma Philippe Forest ha una storia particolare e quel libro la racconta, una storia che aveva già raccontato e che, soprattutto, non avrei voluto leggere in quel periodo. Ma si sa, a volte qualcosa ci porta a far sì che la cosa giusta da fare (leggere proprio quel libro, in quel caso) cozzi con la volontà.
Tous les enfants sauf un, infatti, è la storia della perdita da parte dello scrittore della figlia di quattro anni a causa di un tumore. Non è, in effetti, il libro più adatto da leggere quando a ore dovrebbe nascere tua figlia. Probabilmente (chissà, è solo un’ipotesi basata sul nulla, alla fine) a convincermi fu quel legame che in qualche modo lega la nascita alla morte, o forse era solo un modo di esorcizzare la paura che qualcosa potesse non andare nel verso giusto.
Mia figlia è nata il giorno dopo e per tre giorni è dovuta rimanere, assieme alla madre, in ospedale. E in quei tre giorni, con tutte le difficoltà di lettura (era uno dei primissimi libri che leggevo interamente in lingua) ne avevo letto praticamente metà. Ma quando madre e figlia tornarono a casa, nonostante il libro mi avesse preso, decisi che era il caso di posarlo al suo posto nello scaffale della libreria.
Quel libro di Forest è rimasto lì un anno e mezzo, senza che lo riprendessi in mano fino a un giorno di settembre quando me lo sono ritrovato tra le mani dopo un trasloco.
Quello di Carrère faceva parte del pacchetto di libri a cui apparteneva Forest, ma la sua lettura è dovuta principalmente all’ultimo libro pubblicato in Italia dallo scrittore francese, ovvero Limonov, probabilmente il libro più bello letto l’anno scorso. Qualche anno fa avevo letto L’avversario e Baffi, e il primo dava l’idea di quella che era la missione letteraria che voleva darsi lo scrittore francese: raccontare storie vere, ma facendolo nei confini del romanzo. Così dopo essere rimasto entusiasta di Limonov ho deciso di riprendere quel vecchio “pocket” in mano e leggerlo. A partire dal devastante tsunami del 2004 nello Sri Lanka di cui Carrère e la moglie sono stati testimoni oculari lo scrittore racconterà la storia della cognata morta di tumore poco dopo il loro rientro. Ma prima racconta quei giorni concitati in cui si sono ritrovati al centro di una catastrofe, uscendone vivi ma trovandosi a stretto contatto con la morte improvvisa, soprattutto con quella di una figlia e del dolore dei due genitori ritrovatisi a doverla cercare negli obitori in giro per il paese.
“Ogni giorno da sei mesi a questa parte ho passato qualche ora davanti al computer a scrivere su ciò che mi faceva più paura al mondo: la morte di un bambino per i suoi genitori, quella di una giovane donna per i suoi bambini e suo marito”
L’anno del pensiero magico, invece, è la storia che racconta l’anno che parte dalla morte del marito della Didion, lo scrittore e sceneggiatore John Dunne e di come è stata affrontata questa perdita. Un anno in cui la scrittrice ha continuato a chiedersi se avesse potuto fare qualcosa, a costruire attimo per attimo gli ultimi giorni di vita del marito: cosa aveva detto, cosa aveva fatto, fino a ripercorrere i momenti più dolorosi, che coincidevano con quelli più belli in vita. E come se non bastasse, a dolore si aggiunge dolore. La loro unica figlia, infatti, Quintana è entrata in coma poco prima della morte del padre e lo è quando Dunne si riverserà sul tavolo con a fianco il suo bicchiere di scotch.
Come si racconta il dolore? Come si racconta quel momento in cui come dice la Didion “la vita cambia in un istante”, quello in cui “una sera ti metti a tavola e la vita che conoscevi è finita”? Quello in cui un giorno ti ritrovi improvvisamente a fare da solo cose che eri abituato a fare in due? E come si racconta la malattia? Quella che ti porterà con certezza alla morte. Quella di una figlia di 4 anni che bisogna accompagnare a fare le chemio, a cui devi spiegare che subirà un’amputazione, a cui devi spiegare che ha i giorni contati. O quelli di di tua moglie costretta in casa con una bombola d’ossigeno mentre, nelle pagine più strazianti, prepara il marito e i figli a quando non ci sarà più.
didion pensiero magicoTutti e tre sono libri che richiedono momenti di pausa: leggi, deglutisci e sei costretto ad alzare gli occhi dalla pagina, da quelle parole e soprattutto da quel dolore. Ma non puoi distaccartene perché nonostante l’analisi chirurgica di quello che è l’elaborazione del lutto o anche solo la descrizione di un dolore fortissimo, sono scritti, tutti e tre, in maniera magistrale. C’è sicuramente un’urgenza che attraversa i libri in maniera differente: Forest ne aveva già scritto precedentemente, Carrère è stato quasi convinto a scriverlo, mentre la Didion è quella in cui si sente maggiormente questa urgenza (come scrive Cristiano De Majo nella recensione all’ultimo libro dell’autrice canadese Blue Nights: “Questi ultimi due libri della Didion sembrano fatti apposta per minare le convinzioni del più freddo postmodernista. Sono urgenza allo stato puro: necessità di raccontare dare una logica al dolore; bisogno di aggrapparsi alla bellezza per fuggire dalla morte; una scrittura originata da un tale carico emotivo che non ha il problema di trovare una giustificazione alla sua esistenza”), un’urgenza di capire come elaborare il lutto che si riversa, soprattutto in Forest e nella Didion (non a caso le due persone implicate in maniera più diretta nel lutto), nella ricerca spasmodica di qualche risposta nella letteratura medica (oltre che in quella filosofica).
Quella di Forest è un’analisi quasi chirurgica della morte, del lutto e dei riti che l’accompagnano. Tutti, però, si pongono domande, anzi Carrère piuttosto le pone, al marito di sua cognata, o al suo migliore amico (benché il termine non renda il rapporto speciale che li legava). Fa domande, scava nelle loro vite, come aveva fatto ne L’Avversario raccontando la storia assurda di Jean-Claude Romand, fintosi per anni medico e che arriverà a sterminare tutta la sua famiglia. Ma questa volta ha un’attenzione in più. Permette loro quello che è permesso alla Didion e a Forest, ovvero di leggere e modificare i racconti che lui ha fatto. Fa leggere il libro ai protagonisti. È soprattutto il loro dolore ed è giusto così.
In fondo non esiste un modo per raccontare il dolore, perché non esiste un solo dolore. Non esiste un solo modo per affrontarlo o per elaborarne il lutto, al massimo esiste un’idea molto generale di come arriva. E di come si manifesta:
“Il dolore è diverso. Il dolore non tiene le distanze. Il dolore arriva a ondate, parossismi, ansie improvvise che ti tagliano le gambe e ti accecano e cancellano la quotidianità della vita” (Joan Didion)
no le gambe e ti accecano e cancellano la quotidianità della vita” (Joan Didion)