Grazie alla SUSPI, la Scuola Professionale della Svizzera Italiana, riportiamo di seguito la relazione, di una delle studentesse del corso di laurea in cure infermieristiche, redatta al termine di un'esperienza di stage in una casa anziani.
Premessa a cura della Prof.ssa Magda Chiesa
(Dipartimento economia aziendale, sanità e sociale - coordinatrice corso di laurea)
Le relazioni redatte al termine si un'esperienza di stage sono esercizi di pratica riflessiva richiesti durante ogni periodo di stage ai nostri studenti e che sono ripresi durante momenti in sottogruppo nell’ambito dei moduli di “Identità e alterità”. Questi ultimi costituiscono un filo conduttore all’interno del triennio di formazione dei tre corsi di laurea della SUPSI/DEASS (cure infermieristiche, ergoterapia e fisioterapia) e mirano allo sviluppo del profilo professionale, ma anche ad uno sviluppo della conoscenza di sé in relazione all’altro. A dipendenza dell’anno di formazione si centrano su temi diversi:
- Identità e alterità: preparazione allo stage, dove si accompagna lo studente all’incontro con un contesto nuovo, dove si sondano le sue rappresentazioni rispetto a questa nuova esperienza e dove lo si introduce alla pratica riflessiva;
- Identità e alterità nella pratica professionale, dove lo studente riflette sull’altro da me (per provenienza, per condizione, per cultura, eccetera)
- Identità e etica, dove lo studente acquisisce gli strumenti per affrontare tutte quelle situazioni che in un modo o nell’altro pongono degli interrogativi di tipo etico;
- Identità e complessità nella pratica professionale, dove si introduce lo studente alla pratica della supervisione per leggere e interpretare le situazioni ad elevata complessità relazionale.
Le scritture elaborate dagli studenti a partire da quanto vissuto nello stage costituiscono il materiale di partenza per fare in modo che i concetti affrontati nei moduli possano avere un immediato ancoraggio nell’esperienza pratica degli studenti.
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Introduzione
C’era una volta un luogo in cui il tempo non esisteva, esistevano gli orologi certo, ma quasi nessuno era in grado di leggerli ed i pochi che ne erano in grado, non erano assolutamente interessati a quella scansione del tempo, così noiosa. Quel tempo così improbabile da interpretare e così facile da dimenticare. Il tempo era un
concetto assolutamente singolare, c’era chi era convinto fosse giorno, chi notte e a chi non importava assolutamente nulla. Gli abitanti di questo luogo vivevano di frammenti di ricordi lontani e pezzettini ancora più piccoli di presente, vivevano di mani, di carezze, di pensieri confusi, di pappette, di denti dimenticati e di solitudini. Queste esistenze così dimenticate e lontane dal resto del mondo trascorrevano le giornate immerse nel vacuo sguardo di chi non ha più interesse di ascoltare molto e di dire, ancora meno, perché di cose se ne potevano essere già ascoltate e dette, anche troppe. In questo luogo in alcuni momenti regnava una gran confusione, perché c’era chi riteneva fosse ora di cena, chi pranzo, chi di avere sei anni e dover andare a scuola, chi chiamava incessantemente la mamma, ritendendo che da lì a poco sarebbe arrivare con la merenda, chi era stato derubato di qualcosa, chi cercava disperatamente qualcosa, chi aveva perso la testa, chi riteneva di aver fatto una scoperta sconvolgente o chi annunciava qualcosa di incomprensibile, insomma c’era davvero un gran caos. Gli abitanti di questo luogo, così particolare, vivevano di una socialità più vicina al casuale che al volontario. A tentare un barlume di ordine e di senso al risveglio e durante alcuni momenti della giornata, incontravano per le stanze e i corridoi strane candide presenze, vestite di bianco, con cartellini appesi alle magliette. Erano gli abitanti vicini, che talvolta si rivelavano con le loro mani, con i loro sguardi, con le loro parole lontane, utili e affettuosi ma qualche volta anche ostili e irritanti. Questi vicini, insistevano per docce, clisteri, medicazioni, punture o strane acrobazie e richieste. Gli abitanti del luogo senza tempo e con un ordine agognato e rincorso dalle presenze candide e costanti nei corridoi, custodivano ognuna un grande segreto, qualcosa che non avrebbero potuto condividere a pieno con nessuno di quelli del mondo al loro fianco, fatto di esseri più simili a ombre che a volti, sottili e sempre di corsa. Infatti per le affaccendate presenze, era solo possibile percepire qualcosa di sfuggente, una parola, uno sguardo, che forse lasciava intendere, ma che tanto, in fondo non avrebbero capito. Perché per capire il segreto che gli abitanti del luogo custodivano gelosamente, sarebbe stato necessario tempo, ma soprattutto sarebbe stato essenziale che loro, i bianchi abitanti frettolosi, ascoltassero, vedessero, si avvicinassero un pochino di più. Capissero che ognuno di loro era stato, aveva detto, si era incazzato, aveva amato. Comprendessero che ognuna di quelle grida, di quei ricordi, di quelle parole soffocate, aveva avuto un palpito di senso, in un tempo che sembrava ormai dimenticato. Il segreto che serbavano era intriso in una storia senza più pagine leggibili, un mistero, torbido come un sogno ed evanescente come il ricordo. Alcuni frammenti di segreto erano talvolta percepibili nelle parole dolci dei congiunti che venivano a visitare gli abitanti del luogo, negli sguardi di chi riconosceva sotto quel velo di incomprensibilità il grande segreto così tenue e fatuo.
Il segreto era la vita, quel segreto era la fine, la vita che ha compiuto il suo corso, la fine di qualcosa che non ritorna, la vita di chi è stato uomo, donna, pittore, fuggiasco, la vita in un’esistenza di passioni, che cede il passo alla noia della fine. Stare vicini alla vita e alla fine non era affatto semplice e i candidi abitanti vicini, con le loro divise bianche, le loro certezze e le loro parole difficili, sapevano bene che avvicinarsi a quel segreto poteva essere affascinante quanto pericoloso e proprio per questo, insistevano nello sfiorare la bellezza di quel segreto, convincendosi che in fondo però, non era poi così importante.
Io, loro, la malattia
Sono stata nel posto che ho raccontato, ho avuto modo di incontrare entrambi gli abitanti di quel luogo. Ho potuto integrarmi nella popolazione dei noiosi affaccendati ma ho potuto scorgere parte di quel segreto così magnifico. Esserci alla fine, dare senso, bellezza, importanze, dignità a qualcosa che sta finendo e capire che questo necessita di uno sforzo molto maggiore di prendersi cura, necessita di fantasia, di curiosità, di pazienza. Vuol dire saper vedere nel corpo di una morente la dignità di una spazzolata di capelli, anche se secchi e pochi. In un vestito che non sia sporco e che non puzzi la felicità di una giornata. Vuol dire accettare di rispondere cento volte alla stessa domanda e ridere altrettante volte alla stessa battuta. Esserci quando è necessario pulire l’intimità, quella che non vorremmo mai mostrare, che potrebbe celare vergogna per chi ne “subisce” i vantaggi che proclamiamo, potrebbe voler dire umiliazione, peccato. Esserci alla fine vuol dire accettare che la memoria può essere ancorata ad un tempo che non esiste più, fatto di valori, di paure che non corrispondono al nostro vivere ma che dobbiamo prevedere, comprendere e considerare. Invecchiare può voler dire che non si è più in grado di decidere, che vestiti mettere, cosa mangiare, se stare in piedi o a letto, può voler dire accettare, non poter ribattere, aspettare, un tempo indefinito che non si è in grado di quantificare. Esserci in questo luogo può voler dire aiutare i congiunti ad alleggerire il carico dei sensi di colpa, ed accettare con garbo che le cose da fare, loro, le avrebbero fatte di sicuro meglio. Anche la malattia di fronte alla vecchiaia assume un ruolo, un’importanza completamente diversa, perché esserci in questo luogo vuol dire accettare la sconfitta di non poter guarire, ma saper accompagnare alla fine, rispettando la dignità dell’esistenza stessa e onorandone il suo naturale corso, senza reiterare un’onnipotenza esasperante violentando corpi che scongiurano la loro fine. Vuol dire saper rispettare e stare nel silenzio a fianco ad una figlia, aiutandola a vestire quello che potrebbe solo essere un corpo senza vita con il vestito migliore che ha conservato, perché quella è la sua mamma. Essere in questo luogo vuol dire toccare con mano la vita, passata, presente, di cui non possiamo conoscere tutte le sfumature, ma possiamo decidere di esserci, ricordandone la bellezza anche sotto la pelle sottile che si spacca e pochi denti per sorridere.
Questo spegnersi ed esserci in questa fine mi ha permesso di apprezzare la lentezza di passi incerti, la confusione di momenti sovrapposti, la dolcezza di braccia che sorreggono, ma soprattutto pormi di fronte ad una verità, ovvero che la bellezza di molte cose non risiede nell’eternità ma nella prospettiva della loro fine.
Conclusione
Lo stage concluso mi ha dato modo di saggiare l’alterità a più livelli, quello con i colleghi che sono stati in grado di offrirmi chiavi diverse di lettura per decifrare e rispondere ai bisogni dei residenti. L’alterità con gli ospiti, con cui ho capito l’importanza di esserci con l’identità di “anziano”, considerandone la complessità, ma rispettando l’alterità di ciò che sono stati. Con quella dei parenti, così severi, così polemici talvolta e così figli, così mariti e mogli, confrontati con il peso di una scelta che risultava necessaria ma che porta con sé molto di più di una scelta dovuta. Infine, l’alterità con me stessa in questo luogo, in queste vesti in cui mi sono impegnata ad assolvere e raggiungere i miei obiettivi senza rinunciare alla fascinazione della scoperta di ciò che non si evince necessariamente dai manuali.
Sara Gibelli
(studentessa Corso di laurea in Cure infermieristiche)