Michela Murgia intreccia nel suo libro sia tradizioni reali della sua terra d’origine - la Sardegna - che l’opera letteraria.
La figura dell’accabadora, infatti, fornisce solo un pretesto di fondo per descrivere e far emergere il racconto, basato sulla storia di due donne che, inspiegabilmente, il destino ha unito in un legame che va oltre quello materno.
La piccola Maria, infatti, diventa “fill’anima” di Bonaria Urrai, la vecchia sarta del paese, che decide di prendersi cura della bambina, ultima di quattro figlie di una giovane vedova.
Nella Sardegna degli anni ’50 che fa da sfondo alla storia, Tzia Bonaria farà tutto questo secondo le vecchie tradizioni, facendo crescere la piccola, facendone la sua sola erede e chiedendole in cambio la presenza e la cura quando lei ne avrà bisogno.
Entrambe si adattano l’una all’altra e Maria inizia a conoscere questa donna che le insegna molte più cose di quante ne avrebbe potute imparare stando in seno alla sua famiglia.
Qualcosa, però, si cela dietro la vecchia che si prende cura della giovane: una sapienza quasi millenaria riguardo le cose della vita e della morte, infatti Tzia Bonaria, non è solo la madre putativa di Maria, ma è anche l’ultima madre per chi ne ha bisogno, è l’accabadora: colei che dà la morte a chi è giunto in prossimità della fine della sua vita. Quando Maria scoprirà la cosa si allontanerà dalla vecchia donna scappando lontano per poi tornare, chiamata dal dovere e anche dal quel legame che l’ha sempre legata a chi si è presa cura di lei.